SCOOP

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La redazione di Controluce ha ricevuto, in busta anonima, un biglietto con un messaggio che ricopio fedelmente:

Gentile redattrice, le invio un documento esclusivo, certo che verrà apprezzato dai suoi lettori, terrestri e non. Si tratta della registrazione di una lezione iniziatica tenutasi su una stella facente parti delle Pleiadi e non ancora scoperta: manterrò dunque il riserbo su questo particolare. Le lezioni vengono regolarmente impartite a coloro i quali saranno i futuri Maestri, e che attualmente si dividono in leonpavoni, pavoni, miciamici, e altri soggetti che presentano caratteristiche simmetriche nel pelo o nel piumaggio in quanto ritenuti prescelti o comunque idonei alla frequentazione dei corsi. Non lasciatevi influenzare dalla natura del Maestro che qui vedrete all’opera: tra le sue piume si nasconde una grande sapienza. Da sempre, l’abito non fa il monaco.

Ecco. Dunque, popolo di Controluce, cliccando sopra vi collegherete ad un server che fa da stazione intermedia tra le Pleiadi e noi terrestri. Certa di darvi qualcosa di … celeste, vi auguro una buona visione.

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PENSIERO

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Credere è una bella cosa, ma mettere in atto le cose in cui si crede è una prova di forza. Sono molti coloro che parlano come il fragore del mare, ma la loro vita è poco profonda e stagnante come una putrida palude. Sono molti coloro che levano il capo al di sopra delle cime delle montagne, ma il loro spirito rimane addormentato nell’oscurità delle caverne.

Kahlil Gibran 

VENTI E VELE

 

 

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“Se non puoi imbrigliare il vento, orienta le vele”

Eredità, anche questa, di una gatta molto speciale. E un grande consiglio. A volte ci si intestardisce nel volere cambiare cose che non sono cambiabili. Altre “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli” , per non vedere una realtà che non ci piace, oppure qualcosa che muta, qualcosa che passa, qualcosa che sta crollando. Cadendo con le scarpe dentro l’illusione. Energie sprecate. Sprecatissime. Lo so, lo so. Testa e pancia non si parlano. Hanno linguaggi differenti, e si ignorano bellamente, ostinatamente. Ed è giusto così perché se dovessimo godere delle emozioni e delle passioni grazie al cervello allora avremmo una vita piatta. Magari sicura, senza troppi rischi ma piatta, inodore, insapore, incolore. Ma quando è il cervello a voler “convincere” la pancia che qualcosa è come la vorremmo, sprechiamo energie (perchè la pancia… “sa”), spendiamo male i nostri sogni, riponiamo in luoghi senza fondamenta speranze e progetti e a rimetterci, manco a dirlo,  saranno sia pancino che testolina. E come se non bastasse, pregiudichiamo eventuali altre opportunità che magari stanno dietro l’angolo, occasioni di serenità, e altri odori, sapori, colori.

Allora si deve imparare ad orientare le vele. Ci sono venti che non possiamo imbrigliare, nemmeno controllare e nemmeno possiamo provare a resistere perché non sono “nostri”, non li conosciamo e non sappiamo come si chiamano, da dove arrivano e dove andranno. Arrivano da direzioni differenti, da altre dimensioni, altri luoghi, da altre labbra. E allora giriamo il timone, cambiamo direzione, orientiamo le vele.

Facile? nemmeno un po’…. Ma si deve rispettare il proprio diritto alla serenità e riporre i propri sogni sotto un cuscino diverso, per provare a cullarli di nuovo, in notti differenti, con un canto nuovo.

Orientare le vele, in questo momento storico, sociale, che ci vede attoniti, stupiti e impauriti, è necessario anzi indispensabile. Aiuta a resistere e ad andare avanti.  E se si ha coraggio, si può virare a tutto timone anziché resistere soltanto, e provare a navigare verso nuovi orizzonti. 

ORESTE


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E’ nato in una cesta di vimini, destinata ai mici randagi che girano nel giardino della casa degli zii, limitrofa alla mia. Mamma riccia ad un certo punto ha deciso di occupare la cesta e poi si è capito che doveva partorire. Solo che …. è scomparsa: aveva una zampa intrappolata nei fili dello straccio che stava dentro la cesta. Liberata sabato dai fili, dopo qualche ora è scomparsa.  Lui è rimasto solo e dopo alcune ore, è stato portato a casa mia. Il corpicino freddo e l’aria stremata.  Scaricate istruzioni da un sito specializzato nel salvataggio ricci, comperato latte, creata cuccia ecc. Ora è a casa mia (e di giorno, per forza di cose, in auto, come riccio viaggiatore ma con tutti i confort, le cure, la pappa e le necessarie manovre per i bisogni… fisiologici che non sono autonomi ). Si chiama Oreste, pesava 44 grammi (stamane 46) è bello come il sole. Dai piccolo che ce la fai!

Potevo non presentarlo al pubblico di Controluce? 

Nelle foto in alto: il piccolo appena arrivato da me e la sua prima pappa. Non sappiamo niente della mamma ma nei nostri giardini (mio e quello degli zii) ne vivono diversi, quindi di certo ci sono cibo e rifugi. Speriamo … 

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Oreste mercoledi

L’AMORE SECONDO ALBERT

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Chissà perché spesso identifichiamo le persone con quello che fanno. Quando pensiamo ad un uomo di scienza, vediamo solo .. un uomo di scienza. Enstein, per esempio. Pensiamo a lui e compaiono immagini di calcoli, equazioni, numeri.  La sola cosa bizzarra è la sua immagine, quella famosa con la lingua fuori e i capelli eternamente spettinati. Ma a parte questa immagine a conferirgli un che di eccentrico, lui è il genio, la mente per eccellenza. Nell’immaginario collettivo è tutto questo prima di essere … un uomo.  E’ uno che discorre di movimento, di tempo, di atomi e di luce. Difficile, per i più,  poterlo immaginare  come il vicino di casa, uno che mangia, ride, si addormenta sul divano, sogna, si commuove. Insomma come un uomo raggiungibile: ha un cervello troppo ingombrante. In altre parole difficile giudicare senza pregiudizi. Ahimè.  Eppure amava la musica, aveva un animo delicato. La stravaganza è un aspetto più usuale: siamo abituati alle stravaganze dei geni, ma meno a quegli aspetti delicati, casalinghi, intimi, semplici, disarmati.

Ecco una cosa, semplicemente “umana” dove il cervello e il genio c’entrano poco.  Non c’è l’ombra del cattedratico, del professore, del genio, dello scienziato.

Io la trovo di una bellezza straordinaria.  

Io non pretendo di sapere cosa sia l’amore per tutti, ma posso dirvi che cosa è per me:
l’amore è sapere tutto su qualcuno, e avere la voglia di essere ancora con lui più che con ogni altra persona. L’amore è la fiducia di dirgli tutto su voi stessi, compreso le cose che ci potrebbero far vergognare. L’amore è sentirsi a proprio agio e al sicuro con qualcuno, ma ancor di più è sentirti cedere le gambe quando quel qualcuno entra in una stanza e ti sorride.

Albert Einstein

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NONSOLOILMARE

Perché non è solo il mare, ma quell’odore, di legno, di albero, di terra scura e umida, che ti viene addosso e ti racconta di te.
Perché non è solo il mare, ma la luce di stelle che giocano sulla superficie, argento liquido che si colora di rosso quando il sole inciampa nel giorno e poi di blu quando sopra il mare si stende la notte. Perché non è solo il mare, voce tranquilla a leggerti la storia che sei, senza ordine, senza parole, in un silenzio giusto, dentro il quale cuore e respiro sono accordati e la punta delle dita dirigono il vento.

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CONSAPEVOLEZZA

Da con sapere. Qualcosa di intimo, personale. Che non significa essere informati e nemmeno sapere. Ma essere coscienti, aver preso atto in modo profondo, intimo. Una voce importante, la sua. Occorre saperla ascoltare, e non sottovalutare. Costa, in molti casi, ma ci può salvare, aiutare. A raggiungere un equilibrio, una serenità, buone e sane relazioni.  È una compagna, alleata, complice, ci permette di scegliere anziché subire, essere protagonisti della prorpia vita, prendere decisioni e affrontarne le conseguenze. Come il bastone per il rabdomante, la bussola per il viaggiatore, la stella polare per il navigante.  Lei ci può guidare perfino quando si vive sui crinali, ci indica il punto  dove sorge il sole, il nostro sole. Ci guida nelle notti senza luna e senza stelle. Non ci culla troppo, e non racconta favole, tuttavia non ci priva del piacere di ascoltarle e di elaborarle, di viverle, perfino. Nel modo giusto, in armonia con il bisogno di favole e di magia e di sogni che naturalmente abbiamo. È l’asta per noi, eterni equilibristi tra sogno e realtà,  tra falso e vero. È la rete che ci accoglie a volte un secondo prima dell’impatto. È una voce che sa parlarci di noi: basta volerla ascoltare, tendere l’orecchio e fermarsi un poco. È la prima tappa di qualsiasi percorso importante, di ogni sfida, di ogni battaglia, ed è anche la più dura, il gradino più alto, quello tanto più scomodo quanto necessario. Spesso non ha una voce seducente, ma chiara, qualche volta spiacevole, assertiva, inclemente. Facile scambiarla per un nemico. Ma lei aspetta, è parte di noi. Una mano sempre pronta a sollevarci e indicarci il cammino soprattutto quando è buio. Una luce, sempre presente. Possiamo chiudere gli occhi. Oppure no.

 

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SOCIAL NETWORK NO GRAZIE

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In alcuni momenti, più che in altri, ci si rende conto di quanto sia frustrante dover usare le parole. Specialmente le parole sole, senza cappotto, senza gesti, sguardi, senza offerta, senza le mani. Servite crude, cotte, elaborate, con o senza salsa, lavate, stirate, inamidate, profumate, idratate, asciutte o bagnate. Colorate, sbiadite, stinte, tirate, laccate, scialbe. Cucinate.

Riflessioni più frequenti di questi tempi, in cui i mezzi di trasporto usati dalle parole sono per lo più quelli tecnologici. Nemmeno il gusto della calligrafia, che è unica, personale, il tratto sulla carta profondo, deciso, sfiorato, ad offrire un’ impronta, un profumo, la certezza del tocco, di una impronta digitale invisibile ma unica. Niente. Tutto è impermanente, inorganico, etereo, volatile.  Piccole sillabe naufraghe in colate di cristalli liquidi evanescenti, destinate ad essere perdute per sempre tra canali di scolo di circuiti stampati.

“Tre etti di parole – un filo di olio, due foglie di basilico fresco, salvia rosmarino, due chiodi di garofano tutto tritato finemente, un pizzico di paprika.  Sale pepe e peperoncino s.n.  Mescolate bene.  Servite subito via whatsapp, facebook, twitter “. 

Ci si accorge sempre di più di quanto sia importante comunicare con il corpo, offrire parole non pronunciate ma liberate, parole tonde e silenziose, paffute e gonfie, come quelle parlate sott’acqua, bolle di fiato, con la vita dentro.   Si  riflette su quanto sia importante la voce che, perfino al telefono ha più potere delle parole scritte con una tastiera.  E’ qualcosa di vivo, vibrante, nasce dentro, è immediata, sciolta, diventa vento e viaggia a cavalcioni dell’aria. Come in teatro non si può tornare indietro:  deve essere per forza “buona la prima”  perché una “seconda” non c’è.

Ma per quanto anche con la voce sia possibile correggere, spiegare, sottolineare, marcare, approfondire, limare, niente può sostituire davvero uno sguardo, il movimento delle labbra o le mani, che si infilano negli spazi tra le parole e diventano vera comunicazione.

Le parole hanno un grande potere, certamente. Sanno ferire, anche profondamente, ma uno sguardo può inchiodare, sciogliere, offendere. Poche cose sanno essere più eterne, definitive, terribili o dolci di uno sguardo.

Come si fa a dirsi così tante cose attraverso i social network e solo attraverso questi? Eppure ogni giorno sento cose strane. Va bene, vanno benissimo la condivisione, lo scambio, ma…. quando c’è solo questo?  Una ragazza (non una ragazzina –  almeno non anagraficamente – ) raccontava sul treno di essere stata “lasciata dal fidanzato” con un sms.

Una mia amica è  stata “informata”, via sms, da un “amico storico” (almeno da lei ritenuto tale), attraverso quello che sembrava un comunicato stampa, che le loro esistenze non sarebbero più compatibili pertanto … fine della frequentazione. Ovviamente senza possibilità di replica perché è stata “bloccata” sul telefono.  Ma come si fa?  Si può essere più codardi di così?

Copio incollo un intervento di Ricc in CL di qualche tempo fa.

Le parole sono dei messaggeri. Sono personcine semplici e di buona volontà, ma sono piccoline. E non ce la fanno a fare cose complicate. Basta una porta chiusa, che non ci arrivano alla maniglia. Basta un tragitto un po’ più lungo, che le gambe gli si stancano e bisogna che si fermino. Loro fanno quello che possono e, se ci pensate, a volte chiediamo loro cose veramente complicate, compiti difficili per dei messaggeri con lo zainetto. Eh. Gli si chiede di trasmettere le “cose che sentiamo dentro”. Ba, eh. Facile. Glielo chiediamo anche quando nemmeno noi le abbiamo capite bene, però chiediamo alle parole di trasportarle a qualcun’altro. Che poi loro il messaggio lo portano, ma lo danno ad un orecchio che anche lui c’ha il suo da fare, che poi lo consegna al cervello che ha le sue palle e mica ci capisce tanto di cuore lui, e fa una traduzione letterale, e nemmeno, spiattellando il messaggio su gugol e mandando avanti quello che gli viene… ma pari pari eh. Escono fuori robe incomprensibili, e noi diamo la colpa alle parole. A volte ho compassione delle parole. Che sembrano elaborate e forbite, e invece sono come il pruno del fiore del Piccolo Principe: non sono adeguate a qualcosa di più complicato che non sia chiedere dove sia la stazione o per avere mezz’etto di caramelle di liquerizia. E allora dobbiamo usare tutto quello che abbiamo per fare si che quello che si sente arrivi per davvero. Le parole vanno mandate in macchina, aiutandole con gli sguardi, bisogna mettergli il cappotto usando le mani, per i gesti e per il contatto. Bisogna dargli le radioline con un sacco di sorrisi. E allora vedrete che questi messaggeri, questa volta attrezzati, sapranno spiegarsi meglio, e non ci saranno più parole del cuore, perse in mezzo alla strada…

COLORI DI ORI

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Qual è il colore che preferisci, zia?

Il celeste, Aurora, lo sai da sempre. Mi piace il celeste, l’azzurro, il turchese. Insomma amo i toni che dall’ azzurro finiscono dentro il blu, o nascono dal blu. Mi piace il colore del cielo, il turchese delle pietre incastonate nei monili d’argento. Mi piace il blu.

Ma tutti i colori sono potenti. Non esiste un colore che non lo sia, perché ogni colore sa abitare la nostra anima, parlarci, evocare ricordi sepolti dentro i crepacci della memoria, riportare suoni, odori. In modo dolce o prepotente, gentile o sgarbato.

Diventa filo che cuce brandelli di esistenza, passato con presente. Buca la tela del tempo, libera emozioni intrappolate nei cristalli del tempo e credute sopite. Seduce, brucia, palpita, strugge.

L’arancio al tramonto incendia i cieli, è una striscia di tela che cuce il giorno con la notte, ma dentro è anche un sabato di luglio, senza vento, e un mare immobile come una distesa di cemento e un orizzonte finito, silenzioso come un muro.

Ma  è anche  la colata di luce che inonda e bagna la stanza, penetra attraverso fessure irregolari di persiane di legno della vecchia finestra sul lago, gioca a disegnare strisce dorate sulla pelle sudata, accompagna la danza intima e antica dell’amore.

L’azzurro è quel cielo di maggio, sfacciato, assurda cornice di  una lettera scritta a mano: parole come perle scure di una collana di piombo sui giorni a venire.

Ma è anche una sciarpa, incontrata per caso in un giorno di pioggia e di vento, arrotolata più volte sotto due occhi scuri penetranti come spilli che mi hanno sciolto il ghiaccio nel cuore. Sono ancora grata a quegli occhi, lo sono ancora, dopo tanto tempo.

E il verde? Il verde …. Il verde sono camici, camici e odore di medicine, e sensazione e odore di metallo e di freddo. Verde è una testa che si scuote, due braccia allargate, bocche serrate eppure urlanti di verità impietosa.

E verde è l’erba, sotto i miei piedini nudi, la sensazione di appartenere alla terra che sotto la pianta dei miei piedi pulsa e vibra e respira. Verde è il colore degli alberi, punti di sutura tra terra e cielo, custodi dei pensieri del vento, dispensatori del fiato di Dio sulla terra.

Bianco. Il bianco è l’inverno,  il ritorno in una casa che non era più la mia. I silenzi e i passi lievi, la stanchezza, la speranza. La consapevolezza. La fine dell’anno e la fine di altro.

Ma è il colore della neve, l’altra, quella  della gioia dei bambini. E’ quello dell’infanzia. E poi è quello che accende una camicia un pomeriggio afoso di giugno, e le lenzuola stese, e ogni nuovo giorno, che ruba la scena ai violetti e ai rosa dell’alba. E’ la luce della luna che,  feconda,  chiama a sé il mare e poi semina stelle nuove in cielo.  È il colore della verità,  quello che non nasconde, non mente mai, forse non per scelta ma perché non può. È identico al nero, il suo opposto, l’altra sua faccia nelle regole dell’universo.

Ogni colore può essere amato, odiato, maledetto e benedetto. Ognuno può abitare più parti dell’anima, lacerarla, renderla libera, accenderla, soffocarla, proprio come fa un odore,  un sapore.

Hanno mille dita, colori e sapori e odori, capaci di frugare nella borsa della vita, dietro gli occhi,  dentro il cuore. Dita che sanno spettinare, arruffare, disordinare, seppellire e scoprire segreti. Curare, guarire, trafiggere, stupire.

AFTERGLOW

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Sempre è commovente il tramonto

per indigente o sgargiante che sia,

ma più commovente ancora

è quel brillìo disperato e finale

che arrugginisce la pianura

quando il sole ultimo si è sprofondato.

Ci duole sostenere quella luce tesa e diversa,

quella allucinazione che impone allo spazio

l’unanime paura dell’ombra

e che cessa di colpo

quando notiamo la sua falsità,

come cessano i sogni

quando sappiamo di sognare.

J.L.Borges

 

 

 

DELICATEZZE

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C’è bisogno di carezze, di passo leggero, di pensieri delicati. Ecco la ragione di questo sfondo. Spesso gli sfondi di Controluce corrispondono al mio umore o forse quasi sempre. Da bambina, la primavera,  la Pasqua, erano colori pastello nei miei disegni, le uova che coloravo con la mamma, i fiori di pesco sui quaderni. Stamane, in treno, leggevo qualcosa sulla memoria, sulla selezione della memoria, questo specialissimo luogo del cervello che sa fare cose meravigliose e anche terribili. Sa conservare, rievocare, stravolgere, edulcorare, svalutare, sminuire, esagerare, a volte cancellare a volte ossessionare.

Dicevo: leggevo e guardavo dal finestrino gli alberi fioriti in un batter di ciglia. Peschi, ciliegi da fiore, la brillantissima forsizia, color del sole, che contro i prati verdi e sotto il cielo azzurro sta che è una meraviglia. E mi sono ricordata di un tema, che feci in quarta o quinta elementare. Titolo:  La Primavera. Ricordo perfettamente che scrissi una cosa che mi disse mia mamma qualche giorno prima ed era più o meno questa: “è come un miracolo, come se la mano di un pittore invisibile fosse passata sui prati, sugli alberi, e nel cielo, trasformando tutto. Ma di certo è la mano di Dio”.  La maestra mi fece i complimenti, e ricordo perfettamente che pensai di non meritarli dato che non si trattava di farina del mio sacco.

Servono pensieri delicati, profumi lievi, colori e sole che non feriscono non accecano non offendono, per portarci piano piano fuori dalla grigitudine dell’inverno, dalla pesantezza dei pensieri, dalla lunghezza delle notti, dalla persistenza del buio.

Servono gentilezza, trasparenze, sorrisi semplici su visi semplici, senza trucco. Magliette bianche e jeans e margheritine nei campi. Servono le primule che aprono gli occhietti al sole, con i loro colori che ben rispondono a questa esigenza di pastello, di colori sussurrati, di lievità, di leggerezza. Di golfini sulle spalle, di passeggiate serali. Di carezze sul cuore.

SOB!!

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Riporto qui lo stralcio di una multa stradale (altrimenti detta contravvenzione al codice della strada 🙂 ricevuta da una mia amica che secondo la polizia locale sarebbe passata con il rosso.

Cioè “è passata col rosso”. Eppure le diciamo sempre che andare a lavorare alle 6.45 del mattino fa male!!! Il resto della multa recita “la sanzione è aumentata di un terzo in quanto la violazione è avvenuta in ore notturne!…  Lo ammetto, noi amiche / amici abbiamo infierito. Per la serie: oltre il danno anche la beffa!

Torniamo alle ragioni del post: il linguaggio oscuro usato nella redazione del verbale lo merita ampiamente. 

Il giorno  bip bip bip  alle ore 6.45   in via bip bip Il conducente dell’autoveicolo bip bip targato bip bip ha violato l’art. 41/11 C.d.S. superando la linea di arresto all’intersezione semaforizzata e proseguendo la marcia nonostante la lanterna proiettasse luce rossa nel senso di marcia.

Sob! Gulp! 

Poi:

La violazione è stata confermata dalla infrazione a semaforo rosso (finalmente si capisce la ragione della multa  ndr) sistema ecc ecc ecc prodotto da ecc ecc ecc…

Detto questo, vi lascio in quanto mi devo appropinquare a cose più serie. Devo recarmi nella stanza adiacente la mia al fine di risolvere una questione alquanto spinosa per la quale il mio capo mi ha fatto rilevare l’importanza di provvedere in merito. Porto meco la documentazione necessaria all’uopo, auspicandomi di concludere il lavoro entro la giornata lavorativa onde evitare il protrarsi della stessa.

Ecco.

LA MATEMAGICA

Dedicato ad Aurora che la matematica non l’ama mica… Eh no.. non è esattamente sua amica…  Ho letto di una donna, Emma Castelnuovo. Peccato che a scuola la matematica non la insegnano come l’ha insegnata lei. Forse anche piaciuta di più anche ad Aurora. Bè, Aurora, guardati la MATEMAGICA.  Ciao dalla tua bellissima  🙂   zia.

PAROLE CADUTE

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Ci sono notti di pensieri che si arrotolano, si attorcigliano, imbrigliano i pensieri, mescolano le carte del passato, ci sbattono davanti ad uno specchio dentro il quale si specchia uno specchio. Dietro il quale ci si nasconde la verità, come briciole sotto il tappeto. Notti in cui ci si casca, dentro lo specchio, come fosse un lago. Uscire è difficile quando non sappiamo dentro quale specchio si è finiti. Ci sono notti che hanno forbici che tagliano corde, cesoie per catene, accette per ali. Notti che hanno mani.
Notti che non sono amiche: reti di maglie strette al posto di velluti a riparare spalle, a donare sonni, sonni di riposo, capace di distendere i segni sul viso. G
entilezza per zigomi e guance. Culla per sogni, carezze  sul petto che respira.

Notti di pietà per le parole belle, cadute nei crepacci dell’incomprensione, abissi di pietra dentro i quali la mano non passa. Come il braccialetto caduto alla bambina nella grata del marciapiedi. Niente, non recuperi niente. Sai che sono lì, e ci vuole pazienza, un filo di nylon e una canna da pesca e un bel po’ di tempo. Ma non hai tutta questa roba, non ce l’hai: disponi solo di altre…. parole.

Allora le chiami, le parole belle, provi a farle salire da sole. Ci provi, perché erano belle davvero …  appena nate. Nate da un cuore disteso, che stava anche bene, cadute forse perché accecate dalla luce. Bisogna proteggerle, le parole belle, e tenerle solo sul cuore. E’ un posto sicuro, il cuore. Per questo cerchi di passarle, velocemente, da cuore a cuore…

Ma a volte cadono se il cuore non è pronto, se non può ricevere, se non è sereno: sono parole senza paracadute e senza rete, quelle che nascono dal cuore. Senza protezione, senza cappotto, senza biglietto di ritorno, senza istruzioni. Non sono andate a scuola.

Quelle che nascono dalla testa invece sono più furbe ed equipaggiate. Hanno corde e ramponi, hanno l’assicurazione, il passaporto con la marca, la garanzia e anche la scorta. Sanno mescolarsi, mimetizzarsi, sanno nuotare e camminare. Sanno fare tutto tranne volare, ma alle parole che nascono nella testa non serve volare. Sanno anche contare, e crescere. Si nutrono di altre parole, rotolano, come la polvere sul parquet, e diventano giganti e resistenti. Sono spesso sapienti, sfuggenti, scivolose, drenanti, assorbenti. Taglienti, esperte, capaci.

Le parole che nascono del cuore sono tonde, morbide, semplici, indifese. Vento e pioggia possono appesantir loro le ali. Sono svestite, delicate, esposte,  e non sanno che fare una volta cadute …  non si alzano più. Si può provare a salvarle, rimetterle in fila per farle tornare a casa. E’ un posto sicuro il cuore che le ha generate: forse le può ancora salvare, proteggere, scaldare e tenerle con sè.  Vi sono notti in cui ci si può solo provare. 

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SOGNI VOLI E MAGIE

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Da bambina a volte mio padre mi portava al Circo. Non ho idea di come sia il Circo ora, non so  se vi sono ancora i leoni, gli elefanti, i cavalli. Spero di no, lo spero con tutto il cuore. Da bambina però non pensavo alla dignità che veniva tolta loro, ero probabilmente troppo piccola e la violenza si configurava con il maltrattamento fisico, le percosse, le torture. Non credo che allora considerassi questo aspetto della violenza.
Ma quello che mi ha fatto aprire questa pagina bianca è stato un ricordo, emerso qualche giorno fa chiacchierando con un’amica: la magia del Circo e il mio sogno, profondo e intimo, di voler far parte della Compagnia, girare il mondo e soprattutto indossare quei costumi scintillanti delle acrobate. Guardavo in alto, e ammiravo quelle donne mentre compivano le loro meravigliose acrobazie, mi piacevano da pazzi i costumi di lamè, sgambatissimi, le coroncine tra i capelli, le calze a rete, le scarpette color nudo con le quali avanzavano leggere, in punta di piedi, e la capacità di flettere il corpo, piegarsi e… volare.
Trattenevo il fiato quando si lanciavano dal trapezio per eseguire il volo libero e respiravo solo quando le braccia muscolose dei compagni le avevano afferrate. Mi piaceva il silenzio del pubblico, rotto solo dal rumore delle funi, un leggero cigolio e le catene degli attrezzi. La fiducia che condividevano le persone lassù: fidati di me, ti tengo io.  Mi piacevano i lunghi capelli, raccolti in quella coda di cavallo capace di sorreggere il corpo che si avvitava, velocissimamente. 
I numeri con gli animali invece mi annoiavano: li trovavo banali, non riconoscevo alcun coraggio nei domatori che si cimentavano in numeri che trovavo sciocchi, con i cerchi di fuoco, la testa tra le fauci dell’animale e mi procurava un senso di fastidio il rumore del frustino che batteva il pavimento.
Mi rattristavano i pagliacci, fissavo quella lacrime e quel sorriso disegnato. Già allora percepivo chiaramente la natura del clown, la tristezza malcelata dalla mano di gesso sulla faccia e dal sorriso color ciliegia, disegnato sempre troppo grande.
Una volta tornata a casa … sognavo. Sognavo di far parte di quella che mi appariva, ogni volta, come una grande famiglia, fantasticavo su come dovesse essere meraviglioso girare il mondo. Immaginavo la mia roulotte ordinata, una specie di guscio, un luogo tutto mio in grado di seguirmi e di contenere tutte le mie cose. Quando capitava che un piccolo Circo sostasse dalle parti di casa mia, volevo assistere anche alle operazioni di smontaggio e poi restavo a guardare l’erba schiacciata, e credo provassi un senso di libertà e di profonda invidia. Ma erano i Grandi Circhi (o presunti tali .. si sa che da piccoli sembra tutto molto grande) della famiglia Orfei o dei vari discendenti ad affascinarmi tanto. Non ho mai approfondito se fossero davvero tutti degli Orfei oppure furbacchioni, ma non era importante: la magia incominciava lassù, appena sotto il punto più alto del tendone. Più in alto erano gli acrobati, più corto il mio respiro.
Sorridevo, consegnando questo ricordo alla mia amica e le dissi che a ben pensarci, le mie preghiere, almeno in parte sono state esaudite: non lavoro in un Circo ma vi assicuro che a volte non è tanto differente!

LETTURE & CONDIVISIONI

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Mi piace la gente che vibra,

che non devi continuamente sollecitare

e alla quale non c’è bisogno di dire cosa fare

perché sa quello che bisogna fare

e lo fa in meno tempo di quanto sperato.

Mi piace la gente che sa misurare

le conseguenze delle proprie azioni,

la gente che non lascia le soluzioni al caso.

Mi piace la gente giusta e rigorosa,

sia con gli altri che con se stessa,

purché non perda di vista che siamo umani

e che possiamo sbagliare.

Mi piace la gente che pensa

che il lavoro in equipe, fra amici,

è più produttivo dei caotici sforzi individuali.

Mi piace la gente che conosce

l’importanza dell’allegria.

Mi piace la gente sincera e franca,

capace di opporsi con argomenti sereni e ragionevoli.

Mi piace la gente di buon senso,

quella che non manda giù tutto,

quella che non si vergogna di riconoscere

che non sa qualcosa o si è sbagliata.

Mi piace la gente che, nell’accettare i suoi errori,

si sforza genuinamente di non ripeterli.

Mi piace la gente capace di criticarmi

costruttivamente e a viso aperto:

questi li chiamo “i miei amici”.

Mi piace la gente fedele e caparbia,

che non si scoraggia quando si tratta

di perseguire traguardi e idee.

Mi piace la gente che lavora per dei risultati.

Con gente come questa mi impegno a qualsiasi impresa,

giacché per il solo fatto di averla al mio fianco

mi considero ben ricompensato.

(Mario Benedetti, La gente che mi piace)

PONTI

C’era una volta.. Tutte le storie cominciano così. C’era una volta.

Francesco, si chiamava Francesco ed era un bambino quando incontrò Chiara e gli occhi di Chiara.
Capitò in primavera, una di quelle primavere in cui i prati sono bucati dai crocus come i cieli dalle stelle.
Chiara comparve all’improvviso in quello che era un mondo di silenzi, di scoperte, di verde, di alberi e di fiori e di nevicate. Un paese di dentro che sarebbe diventato grande, che avrebbe accolto foglie dorate e fiocchi di neve, che sarebbe resistito al gelo, e profumato dall’aria di primavera. Che avrebbe saputo meravigliarsi sotto cieli stellati quelli che a vederli stando sdraiati pare che caschino addosso e tolgono il respiro.
Un posto sul quale sarebbe cresciuto del morbido muschio, che avrebbe accolto la pioggia, che sarebbe stato schiaffeggiato da tempeste di sabbia, bruciato dal sole, accarezzato dalla gentilezza della sera.

Ma questo paese era ancora protetto dalla membrana che separa i mondi dagli altri mondi quando proprio lì, ai piedi di un Albero, incontrò Chiara. Si guardarono, per un istante: gli occhi dentro gli occhi.
Fu un istante, un guizzo, il tempo di un fiato poi Chiara scomparve. Senza una parola, senza un rumore, senza che l’aria si dovesse spostare per lasciarla passare. Chiara. Chiara era il nome che doveva per forza avere: la pelle era bianca, chiari gli occhi e i capelli. Per Francesco fu Chiara. Chiara per sempre.

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Tornò diverse volte all’albero, ma Chiara non c’era. Forse non c’era mai stata. Forse era solo la fantasia di un bambino che bucava la membrana di un mondo che separa un mondo dagli altri mondi.

Come il paese di dentro, e con il paese di dentro, il bambino crebbe. Diventò quello che doveva diventare, accolse la pioggia, i fiori, resistette alle tempeste, qualche volta cadendo, altre volte solo piegandosi un po’ verso i propri contorni, tastando i propri confini, esplorando le proprie terre, lasciandosi arare dal tempo e da mani più grandi.
Accolse le notti e i giorni in modo regolare, come le stagioni, e le cose belle, i pianti, il dolore. Imparò le paure, perdette cento volte le chiavi dei suoi portoni, abbassò e sollevò i suoi ponti, visse i suoi temporali.
Si lasciò coprire di neve, ascoltò i passi affondare. Il tempo scavò le sue tane e nascose tesori. Seppellì sogni e dolori e costruì ali, e altri sogni. Imparò a tastare i suoi confini, a conoscerne i limiti.
Disseppellì sogni e dolori, ruppe ali, e sognò altri sogni. Incontrò gioie, emozioni, amori. Profumi, odori di cani. Calore e fiato. Curiosità, di vita, di libri e di sé. Cresceva il pelo sul corpo, perdeva l’altro pelo dal corpo.
Crebbe, come tutte le cose, come i paesi, come gli alberi: non c’era nemmeno il ricordo di Chiara.
Solo un senso di Albero, qualcosa di grande, di infinito, che bucava la parte più blu del cielo, più vicina alle stelle, non lo avrebbe mai abbandonato. Non ne era consapevole, c’era solo un senso di ….. qualcosa.
L’Albero aveva lasciato una goccia di resina nella sua anima, e in qualche luogo di dentro aveva seminato un odore, un sapore, un seme. Ogni tanto affiorava come una vaga sensazione di un luogo antico, lontano, ma si traduceva solo in un senso di qualcosa, qualcosa di aspro e dolce, di legno e di pietra… sassi, forse. Sassi come stelle cadute da qualche parte, con la sensazione, forte ma sempre brevissima, di qualcosa da andare a riprendere. Qualcosa che aspettava, da tempo, in un altro Tempo.

Poi un giorno – un bel giorno – come si dice in tutte le storie,  lei arrivò.

Arrivò “per caso”, piombando dentro un pomeriggio di telefoni e fax, tra appuntamenti e odore di carta e led, schermi luminosi, bip bip. Niente posto per gli alberi, nessun angolo per un solo centimetro di muschio, nessuna zolla di terra, nemmeno un sasso. Non un buco nel soffitto a mostrare le stelle, in quel luogo.
Una voce, dapprima, e un nome. E poi il viso di Chiara. Le labbra di Chiara. Il fiato di Chiara, l’amore di Chiara.

E lentamente si delineava, nel tempo di mezzo tra la veglia e il sonno, tra ciò che sembriamo e ciò che siamo, una sagoma… Un vago ricordo, fuggente, come quelle cose che non appena affiorano nella mente, scivolano via e si perdono, nemmeno a rincorrerle. Niente. Sembrano solo idee. Guizzi. Come un sogno che non si riesce ad afferrare, come una parola che sta sulla punta della lingua.  Come ….. Come cosa? Come…. Come? Come… ma si!!! Come un Albero. Ecco cosa affiora ogni tanto! La maestosa figura di un Albero! Un grande Albero.
Fu in un momento preciso, non saprebbe dire esattamente quale, in cui le narici si spalancarono perché quell’odore fosse percepito, goduto, inspirato… Era odore di resina. Quella resina. Di quell’Albero.   E… gli occhi dentro gli occhi. Gli occhi di .. Chiara.

Se avessi dei piccoli lettori, allora chiederebbero:

Ma allora era un ricordo? Francesco aveva davvero incontrato Chiara quando erano piccoli? O forse accadde tutto in un altro mondo, separato da questo?

Nessuno lo sa. Tranne l’Albero.

L’Albero?
Sì. L’Albero. L’Albero sa tutto. È il ponte tra presente e passato, tra un mondo e un altro mondo. Un ponte che attraversa la terra di mezzo e che conosce i segreti di tutte le cose che stanno tra la terra e il cielo. Conosce i segreti del tempo e qualche volta ne trasporta gli odori.

Ma… loro lo sentono?
Si, loro lo sentono. A volte è una sensazione leggera, come quella di una farfallina con le ali che si posa sul braccio. A volte è una fotografia che appare all’improvviso, a volte è una voce. Un sasso nelle tasche. Un segno nel cielo. Una luce sotto il Paese, quello di dentro ma anche quello di fuori, attraversato da altri ponti, tagliato da fiumi, illuminato da lune gigantesche e bianche, piene o velate.
A volte è un odore che permane, a volte è altro.

Cos’altro è, a volte?
È … Albero.

la foto è tratta dal web.

INDOVINA CHI VIENE A CENA

Ho annunciato, tra gli interventi del post sottostante, di avere una storia da raccontare. Una di quelle storie che sembrano favole, e che anche il finale è degno di una favola, dove è anche bello mettere la parola “fine” proprio perché non è finito un bel niente. Anzi.
La storia è un evento accaduto a Riccardo. L’ho pregato di scriverne, perché di storie come queste, piccole grandi storie dense di umanità e di bellezza ne abbiamo bisogno sempre. E ora anche di più. Forse per testimoniare, ostinatamente, che esistono ancora delle cose cosi piccole che fanno fare delle cose tanto grandi.. O forse dovrei dire che capitano delle cose tanto grandi che possiamo salvare facendo …. delle cose tanto piccole.
Vai Ricc. E grazie della storia, e di aver permesso questa condivisione con questo popolo di Controluce, più in ombra che in luce. Più a suo agio nel silenzio di uno sfondo crepuscolare che con la luce contro.

Celeste

.

.

Quella che vado a raccontare è una bella storia. E’ la storia di un incontro tra due esseri diversi, mondi diversi. Che non si conoscono, che sono divisi da storie e credenze, che sono fondamentalmente divisi dall’ignoranza.

E che il caso ha fatto sbattere il naso insieme. E che li ha obbligati a guardarsi negli occhi e volere o (appunto) volare mescolarsi e conoscersi, e capirsi un pochino, prima di lasciarsi, un po’ più consapevoli di prima.

“Che è successo? Dove sono? Perchè c’è tutta questa luce e questo caldo infernale? Dov’è la mia mamma? E i fratelli dove sono? Li sento sempre accanto e ora invece non ci sono. Oddio!! E tutti questi giganti che sono? Cosa vogliono?? Ho paura, ho paura! Devo andarmene, devo scappare ma non ci vedo, e poi non mi riesce di muovermi su questa superfice liscia!!! Sento che comunicano, che urlano con quelle loro voci, mi indicano. Perchè? Uno di quegli esseri mi si avvicina e mi prende, che vuole?? Ma che vuole?? Ho paura, ma mi difendo, devo scappare, mordo, lo mordo!!!”

MA PORCAPUTT!!!!!!!… ma senti questo che denti che c’ha! Mi ha morso, e faccio sangue perdio… porterà malattie? E se mi morde di nuovo?? LO SAPEVO, PERDIO! E ORA? VA A FINIRE CHE MI PRENDO LA RABBIA!!! MA FARMI I FATTI MIEI MAI EH???
…. E chi li conosce i pipistrelli???

Io pranzo raramente. Non perchè sia uno stakanovista, mi piace il mio lavoro ma il fatto è che se mangio, dopo mi addormento. No … Non è vero nemmeno questo. E’ che è tutto talmente squallido intorno a dove lavoro, che proprio mi mette tristezza. Solo quando c’è compagnia allora esco, per non fare quello che è l’orso. Ma mangiare per mangiare, quasi mai.

Quel giorno era il primo d’agosto, ed avevo stranamente fame.
Allora scesi giù, mi incamminai lungo il marciapiede di questo quartiere di periferia per andare al “bar pasticceria” per prendere una schiacciatina al prosciutto. Si, la schiacciatina non è malaccio.
Mentre cammino per la strada, vedo un assembramento di persone, qualcuna agitata che smanaccia, altri parlano tra loro, ma non si capisce.

Mi avvicino e sento: “ma buttalo lì, no? Nel prato!” L’altro: “buttiamolo nella fogna, quei cosi stanno lì dentro” . Una tizia coperta di vernici e stucchi vari: “Aaaahhhh!!! Che schifo!! Si muove!!!!”.

Guadagno un po’ di spazio e vedo che in terra c’è una specie di topolino, che sta arrancando sulle mattonelle cercando di andarsene da lì, ma non ce la fa perchè scivola. Come mai? Vedo meglio e quello che sembrava un topolino è in realtà … un pipistrello. Inequivocabilmente.

Eccoci.
E ora? Io no so nulla di pipistrelli. Portano malattie? Sono aggressivi? So che sono dei roditori, ma non so di più… E che fo? Lascio fare e vo via, in qualche modo farà. Siiii !!! Come no!! Con tutte ste bestie ignoranti d’intorno non la scampa.

Ok, ok , ok. Proprio oggi dovevo prendere il panino, eh!! Ok.

Signori, qualcuno se ne vuole occupare di questa bestiolina? No? Niente in contrario allora se ci penso io?”

Eh, come immaginavo tutti zitti d’improvviso. Ma va bene così. “Allora lo prendo io, per favore spostatevi”.

Come lo prendo per tirarlo su, mi appiccica un morso da urlare, e non molla il bastardo! Dolore atroce e sangue a litri (esagerato!) e subito mi viene in mente a chi posso chiedere per sapere se portano malattie, ora che è agosto, e come faccio a non farmi mordere di nuovo, senza fargli male o ributtarlo per terra…

Ma straporcaputt…. ma farmi i fatti miei no eh? MAI! E ora???
Da un ufficio lì accanto esce una signora, che mi porta una scatola di carta, quella delle risme di carta per stampanti. Ha il coperchio, e ci metto l’esserino dentro, con più garbo che posso. Intanto noto che nei secondi dopo il morso s’è un po’ calmato, e non ha più accennato a mordermi di nuovo. Ringrazio la signora e le chiedo se me lo può tenere cinque minuti che, perdio, oramai sto panino lo voglio!

Torno e lei mi porge la scatola con un librettino di fogli: nel frattempo che io mangiavo lei s’è messa su internet e ha cercato “tutto quello che avreste voluto sapere sui pipistrelli ma non avete mai osato chiedere”. Comprese malattie, comporamenti, istruzioni per l’uso, primo soccorso.

Sono commosso… non siamo più abituati a vedere che qualcuno si muove per aiutarti. Ringrazio, prendo la scatola con l’animaletto dentro e salgo in ufficio. Chiamo il veterinario, siamo amici.

Prima si fa ripetere un paio di volte quello che mi è successo: “Cosa ti ha morso??? E come hai fatto a trovarne uno per strada?? Ma ‘ste cose solo a te possono capitare!”   Eh oh!!! E’ capitato! Ba!

Mi rassicura un po’ sulle malattie, non è cosa nota che ne portino. Meglio.

Comincia la ricerca di cosa diavolo mangino o facciano, o chissà cosa c’è da sapere. Intanto il dito fa male. Sbircio dentro la scatola. Lui sta in un angolino. So che non stanno a terra (lo sanno tutti che stanno a testa in giù, mi dico).  Allora trovo un asciugamano e lo metto dentro la scatola, appeso al bordo. Parte come un razzo sull’asciugamano per nascondersi dentro.
Io mi piglio un colpo e richiudo la scatola.
Non stiamo andando bene.

Chiamo la LIPU. Io non sono in grado di tenerlo, non so nemmeno se è cucciolo o adulto, se è ferito o no. Loro lo sapranno. Mi danno appuntamento per la sera. Non mi danno l’impressione di saperne molto più di me.

Tornare a casa, in moto, con un pipistrello in una scatola al posto del passeggero è una cosa che può capitare solo a me.

L’appuntamento alla LIPU è dopo cena, parto per portarlo. A metà strada mi fermo. L’ho guardato ancora, ed è bellissimo: è lungo una decina di centimetri ed ha degli orecchioni enormi… e un musino che pare un cane in miniatura. E poi ora che si è calmato e ha trovato il modo di nascondersi nell’asciugamano, ti guarda affacciandosi col capo da una piega del tessuto. E non sembra per nulla aggressivo.

Allora mi ricordo che a poca distanza da casa mia c’è l’università di biologia, che sono quelli che hanno progettato e venduto la “batbox” da attaccare sulla facciata di casa. Io ovviamente ne ho messa una.
Decido: torno a casa e domani chiamo l’università. Loro qualcosa ne sapranno eh! Volto la macchina e torno indietro.

Nel frattempo ho letto che il primo soccorso si fa con una siringa (senza ago, ovviamente) riempita di omogeneizzato di carne. Facciamo anche questa. Onestamente sono un po’ in pensiero per i morsi, ma vabè, va fatto. D’altra parte al primo sono sopravvissuto.

L’indomani mattina compro tutto e faccio la prova pappa. Lo lascio nell’asciugamano e lui si fa prendere senza protestare troppo. Gli metto davanti la siringa. Mangia a quattro palmenti. Una scena fantastica. Si fa fuori tre siringhe intere. Stiamo cominciando a diventare amici.

Chiamo l’università, e di chirotteri c’è un dipartimento apposta.
“No signore… non sono roditori. Sono mammiferi, come lei e me.”
Non so se il viso rosso si vede per telefono. Forse il mio si vedeva!
“Senta, venga domani che c’è il ragazzo che si occupa dei recuperi, le spiegherà meglio come fare.”
Nel frattempo gli ho dato un nome: si chiama Pippo, Pippo il Pipistrello ovviamente.

L’indomani lo riporto all’università, e suscito l’entusiasmo di tutto il dipartimento: Pippo è un Molosso dei Cestoni, il più grande pipistrello italiano coi suoi 40 cm di apertura alare. Ali che però non ha mai spiegato. Loro non ne vedevano uno da tanto.

Mi dicono che è un giovane al primo volo, che probabilmente ha avuto un problema ed è caduto a terra, la notte precedente il ritrovamento. Ma sta bene, non ha ferite ed è piuttosto in forma.
E qui c’è stata la scena più bella. O meglio, una di queste.

Il ragazzo l’ha preso in mano, e se l’è appoggiato alla maglia. Pippo è partito a razzo arrampicandosi con… mani e piedi ed ha puntato all’ascella. Ci si è rintanato e poi ha messo fuori la testina per guardare. “Qui sono al sicuro”, diceva.

Una scena di una bellezza rara. E… sorpresa!! Oltre a non essere un roditore, non era nemmeno un maschio: Pippo in realtà… era Pippa.

Mi spiega cosa le devo dare da mangiare. L’omogeneizzato va bene per l’inizio, ma dopo non lo troverà in natura perchè il supermercato dei pipistrelli ha litigato col fornitore (:-). Quindi parte la caccia alle “larve di camola”. Le procuro, e lei le mangia. Mangia queste, l’omogeneizzato e beve acqua.
E andiamo molto bene.

Io però sono preoccupato per il volo: non ha mai aperto le ali da quando è con me. Saprà farlo?
A quello ci penso io. Te rimettila in piedi (si fa per dire), poi a insegnargli a volare ci penso io”, risponde il ricercatore. Ecco, un sollievo che non vi dico.

La sera, mentre le do da mangiare, scappa, e gattona verso i mobili della cucina. E in una frazione di secondo sparisce dentro un buchino tra il muro e lo zoccolino. Per riprenderla ho dovuto smontare un mobile intero della cucina. Non ho parole.

Il giorno successivo, la mattina la riprendo dalla scatola dove dorme per darle da mangiare.
E non c’è.
Panico.
Alzo gli occhi. Sopra la sua scatola c’è… la mia libreria.
Dove i libri sono in terza fila. Strapiena. Se si è nascosta lì, la troverò a primavera. Comincio a smontare la libreria. Riempio tutta la casa di pile di libri.

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Poi la trovo dietro un mobiletto in salotto. Meno male!

Per rimontare la libreria ci ho messo due week end. Però ora è ordinata. Quando la vedo mi ricordo sempre di lei, è come se mi avesse fatto il regalo di darmi la libreria nuova…

Passa qualche giorno, porto Pippa a scuola di volo. Il ragazzo mi manda un video del suo primo volo all’interno di un ampio garage, condotto con una maestria da navigata pilota.

Me la riconsegna affinchè sia io a liberarla, nello stesso posto dove l’avevo trovata. In effetti al tramonto lì si sentono spessissimo degli schiocchi, secchi e acutissimi: come al solito noi non facciamo più caso a niente, ma quello è il verso che fanno queste bellissime creature: sono gli unici pipistrelli che emettono suoni nel campo dell’udibile, tutti gli altri sono negli ultrasuoni, che noi non possiamo sentire. Ma loro si sentono. E questo significa che dove l’ho trovata, c’è una colonia.

Gli ripeto che ho paura di sciupare tutto all’ultimo, facendo qualcosa di inadeguato. Ma lui dice che non è così, e che farà tutto da sola. Gli credo: è stato, in questa esperienza, un vecchio saggio di ventcinque anni… e gli credo senza riserve, anche se sono comunque un po’ preoccupato.

Andava fatto al primo buio, che d’estate è verso le nove. E così feci.

Ci mise una decina di minuti in tutto: per un po’ stette lì, appesa alla mia mano. Poi fece un po’ di toeletta, drizzò le sue enormi orecchie, si guardò intorno emettendo i suoi schiocchi. Infine aprì le sue enormi ali e se ne volò via, con un volo teso e potente…

Un’emozione enorme. Veramente una cosa che ti ricordi a vita.
Stetti lì un’altra mezz’ora, lei passava ogni tanto lì sopra, col suo verso. Poi la salutai: ciao Pippa, abbi buon vento. E me ne tornai a casa.

Morale della favola?
Io non sapevo niente di questi piccoli esseri. Niente se non quello che la stupida cultura popolare ti insegna su di loro, alla quale ovviamente non no mai creduto.

Ora ne so molto di più, e ho visto anche che sono degli esseri che possiamo bene capire e che quando capita, possiamo conviverci e aiutarci a vicenda. Sono miti, e hanno bisogno di essere rassicurati quando sono in difficoltà. E non sono ostili se non quando sono terrorizzati e hanno paura.
Come noi. Proprio come noi.

Questa è una storia che dovrebbe fare parte della cultura di tutti gli esseri umani che vogliano definirsi tali. E’ una storia di convivenza, di comprensione delle difficoltà. Di ascolto, di attenzione.
E, infine, di sola splendente bellezza, che è quanto che ho provato io mentre succedeva.

Buonasera controlucini
Riccardo

e ………………….

Pippa

Eccola
Lei .. è proprio Pippa.

CONTROLUCIANDO

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Buongiorno a tutti i controlucini. Proprio a tutti.

Anticipo la firma: chi scrive sono io, Riccardo, e non la nostra Celeste.

O questa?

Eh.

Beh, pigliamo il toro per le corna, la palla al balzo e il coraggio a quattro mani.

Parlando con Cele si diceva che questo posto è qualcosa di speciale anche quando viene un po’ trascurato, anche quando è un po’ spento. Perché c’è sempre chi ci fruga dentro, chi legge, chi sfoglia i post. Questo fa piacere, anche se è condiviso che non sia questo il suo scopo, ossia quello di “fare audience”.

Ed è una cosa che fa pensare.

E se ne parlava. Di come mai sia un po’ spento, di come mai sia ancora frequentato. Di cosa significhi, di come sia nato. Di cosa ci sia dentro. Del perché ci teniamo. Anche del continuare, o dello smetterlo. E quando pensi ci vuole un po’ per mettere a fuoco le cose, a volte le sai già da tempo. A volte un po’ e un po’.

Eh, appunto: un po’ e un po’.

Io dicevo che a questo posto ci tengo. Che è un po’ un rifugio, un posto dove tornare quando si ha voglia di quel sapore di intelligenza e cuore. E di gusto: dalle immagini, a cosa c’è dentro e dietro. Ai commenti alla gente che c’è, alle sfumature del carattere e l’esperienza di ciascuno.

Abbiamo deciso che avrei scritto qualcosa al riguardo, non so poi perché ma in effetti mi fa piacere farlo.

Beh… ho iniziato questo discorso diverse volte, con diversi soggetti e diverse intonazioni. Credo che la cosa migliore sia che scriva semplice semplice quello che sento. Qui ci siamo per scelta, dedicando il tempo che possiamo scegliere dove spendere, e quindi credo che questo sia l’unico approccio giusto.

Da parte mia è stato difficile tornare qui in questi mesi, con lo spirito di prima, dopo che qualcuno di importante, di un componente della comunità di Controluce non è più stata tra noi: Petula, con le sue zampe, la sua coda, il suo cuore, la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua fermezza, il suo umorismo, la sua eleganza.

E’ probabilmente un problema mio di “gestione del dolore” come va di moda dire ora, dove tutto si “gestisce”. Forse è normale, forse no. Rileggere certi scambi, divertenti, intelligenti, garbati … forse solo belli e basta, è difficile.

E mi dico, e me lo sono detto in questi mesi, che in effetti è anche strano: provare un senso di mancanza per una persona che nemmeno ho mai conosciuto, e con la quale ho condiviso “solo” questo spazio, questo tempo. In effetti strano può esserlo.

O forse questo spazio, con i suoi abitanti, è importante.

Beh, siamo tutti grandi, qui, e penso che tutti siamo consci di avere di fronte sì un pc, ma in realtà di avere a che fare con persone vere, e quindi la virtualità del mezzo è solo strumentale a poter stare in contatto con queste. A costruire una comunità comunque vera.

Discorso complicato vero? Forse si, ma in realtà è semplicissimo. Ed è che penso che seppur con fatica, seppur con un innegabile dolore che aleggia e che si respira tangibile tra queste pagine, mi piacerebbe che questo posto, seppur necessariamente ferito da … queste quattro zampe che calpestano altri prati, da una lucertola nascosta e spersa, riprendesse colore e vitalità. Forse una vitalità diversa.

Questo è una via di mezzo tra un desiderio e una dichiarazione di intenti.

Beh.. i pensieri sono molto semplici. Le parole spesso suonano stonate o formali o eccessive o auliche.

Spero che queste mie suonino semplici come lo sono i pensieri. Se così non fosse … cercate di filtrarle con il tovagliolo, come faceva la mia nonna con il brodo per farlo limpido.

Ciao

Riccardo

.

 

COSE CHE FORSE

foto mia

Da uno dei tuoi cortili aver guardato
le antiche stelle,
dalla panchina dell’ombra aver guardato
quelle luci disperse
che la mia ignoranza non ha imparato a nominare
né a ordinare in costellazioni,
aver sentito il cerchio dell’acqua
nella segreta cisterna,
l’odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzio dell’uccello addormentato,
l’arco dell’androne, l’umidità
– queste cose, forse, sono la poesia.

Il Sur (Jorge Luis Borges)

VEROFALSO

immagine: http://lettere2.unive.it/caracciolo/53sandro_botticelli.htm

 

Donald Sutherland – Billy nel film “La migliore offerta” – dice: 
 “I sentimenti umani sono come le opere d’arte, si possono simulare”.

Nessuna recensione sul film, per carità!  Piuttosto una riflessione su quello che è il leit motiv del film: verità e finzione, simulazione, artificio, inganno, falsificazione.

L’amore ripara e ricostruisce il meccanismo bloccato dalla ruggine, della personalità un bel po’ borderline dei due protagonisti, così che entrambi raggiungono una specie di “guarigione” (similia similibus curantur).

Ma …
questo amore è simulato dalla bella Claire. La simulatrice infatti alla fine deruba il ricco Virgil, dopo averlo completamente trasformato e “guarito” dalla sue manie che per tutta la vita gli hanno impedito di vivere relazioni sociali “normali” e qualsiasi rapporto con l’altro sesso. Un vero misantropo.

Falsa è l’amicizia di Robert, l’orologiaio che lo aiuta a mettere insieme l’automa Vaucanson. A tal proposito, è interessante notare che l’assemblaggio dell’automa è parallelo all’abbattimento del muro tra Clare e Virgil.  Ingranaggi di un meccanismo che con il robot si attivano, da una parte. Dall’altra le  fobie che  nei due protagonisti si dissolvono. Un parallelismo raffinato e affascinante, dal punto di vista della sceneggiatura.

Recitata è anche la fedele e ostentata amicizia di Billy: alla fine si scopre essere il regista di tutta la messa in scena. E’ lui che afferma che  “I sentimenti umani sono come le opere d’arte, si possono simulare”. E materializza questo concetto lasciando a Virgil come “firma” sull’opera (la truffa) un quadro che esso stesso ha dipinto.

Virgil è un battitore d’asta, è richiesto in tutto il mondo, perizia opere d’arte di enormi valori e deve la sua brillantissima carriera alla sua capacità di distinguere un’opera vera da una falsa…
Tuttavia … non si accorge del complotto, orchestrato dalla donna amata, dai suoi amici, dal conoscente orologiaio Robert che diventa il suo confidente intimo, dal vecchio amico Billy.

Ma forse è più facile scovare il particolare che sconfessa l’autenticità di un’opera che distinguere tra sentimenti veri e sentimenti simulati.

Perché?
Forse perché c’è qualcosa nella natura umana capace di idealizzare e di trasformare come argilla un sentimento che urge come nutrimento, unguento o anestetico. Forse perché siamo bravi a giocare  tra luce e ombre, a ingannare gli occhi, il cuore, e perfino negare evidenze, nascondere pochezze e convincerci che qualcosa/qualcuno  è come vorremmo che fosse. E che noi stessi siamo come vorremmo essere.
E forse anche perchè, come Claire afferma: “In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”.

Forse ha ragione un mio amico della capitale che un giorno disse: Ori, non è vero niente. E’ tutto finto…

A TUTTO CUORE

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Il Boscaiolo di Stagno

. …una volta anch’io avevo il cervello e perfino il cuore; quindi avendo provato l’uno e l’altro, preferisco di gran lunga avere il cuore. Cos’è stato? chiese Doroty timidamente. – Non so immaginare, – le rispose lo Spaventapasseri: – ma proviamo ad andare a vedere. In quella, un altro lamento giunse alle loro orecchie e pareva che il suono venisse da dietro. Si volsero e fecero pochi passi nel bosco: d’un tratto, in un raggio di sole, Doroty vide brillare qualcosa che si abbattè fra due alberi. Corse a vedere e si fermò di botto con un grido di sorpresa. Il tronco di uno di quei grandi alberi era stato spaccato a metà, lì accanto con un’accetta sollevata in mano, c’era un uomo fatto interamente di stagno. La testa, le braccia e le gambe erano saldate al corpo, ma assolutamente rigide, come se quell’infelice taglialegna non potesse muoversi. – Sei tu che ti stai lamentando? gli chiese Doroty. Sì,- rispose l’omino di stagno, – sono stato io. È più di un anno che mi lamento e nessuno finora mi ha mai sentito, né mi è mai venuto in aiuto. (…) …come mai vi trovate da queste parti?- chiese il Boscaiolo di Stagno. – Siamo in cammino verso la città degli Smeraldi, per andare a trovare il Mago di Oz, – rispose Doroty. – Per quale motivo desiderate vedere il Mago? – chiese il Boscaiolo di stagno? – Io voglio che mi faccia ritornare al mio paese e lo spaventapasseri desidera che mette un po’ di cervello nel capo. Il Boscaiolo di stagno parve riflettere seriamente per un istante. Poi domandò: – Credete che il Mago di Oz possa darmi un cuore? – Mah! Io direi di sì, – rispose Doroty; – non sarebpbe più difficile che dare il cervello alla Spaventapasseri. – Allora se mi permettete di unirmi alla vostra compagnia, vengo anch’io nella Città degli Smeraldi a chiedere aiuto ad Oz. – Vieni pure! – esclamò lo Spaventapasseri con grande cordialità. (…) Sia Doroty che lo Spaventapasseri avevano ascoltato con grande attenzione la storia del Boscaiolo di Stagno ed ora capirono perché ci tenesse tanto a riavere un cuore. – Io domanderò che mi sia ridato il cuore perché il cervello non basta e render felice una persona e la felicità è quello che conta di più al mondo. Doroty non sapeva decidere quale dei suoi due amici avesse ragione.

Da   “Il mago di Oz”

PENSIERI DI VENTO

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foto mia, 14 08 2013

Ci sono momenti in cui il corpo sembra leggero, e la mente libera, l’anima anch’essa leggera, senza pesi, senza polvere, senza zavorre. Sono attimi. Di vento, di fiato, di odore di temporale, di acqua.
Piccoli istanti in cui alcune assenze sanno far male, così come tanto di quello che c’è, quasi tutto, che appare assolutamente inutile ma si stempera. Le assenze invece no. Sono nel vento e ti avvolgono e ti abbracciano. Questa mattina era così. Esattamente così. Non mancava niente e mancava tutto. In questa fotografie c’è quel pensiero. Di tutto e di niente. Di vento.

 

COSA NON BASTA COSA

Lanterne, foto mia, agosto 2012.

Non basta un sorriso dolce sul viso di qualcuno, per dire che è persona  capace di dolcezza.

Non basta raccontare di sé,  cosa si fa, dove si va e con chi,  cosa piace e cosa no, per dire di condividere. La condivisione vera avviene in un luogo comune e profondo. Esserne capaci è altra cosa del raccontare e confidare.

Non basta essere dalla parte di qualcuno per esserne complici. La complicità profonda è altro. E non è pregiudicata dal dissentire o dal dissociarsi, a volte. Anzi ne trae vantaggio, cresce e fa crescere.
Non basta ascoltare con attenzione per capire. Le parole entrano attraverso le orecchie e la pelle. La comprensione avviene dentro l’anima, e coinvolge la testa, la pancia, il cuore.

Ci sono notti che i pensieri sono come attorcigliati sul filo di lana ma a volte il gomitolo si scioglie e pensieri si ingarbugliano.

A volte invece è tutto così chiaro, specie quando sembra più annodato e difficile. Il punto più oscuro è sempre quello sotto la lampada.

.

SEI UOVA E UNA PREGHIERA

foto dal web: http://www.queryonline.it/wp-content/uploads/2010/08/time_travel.jpg

La chiamo ieri, da casa.

Ciao. Ti avevo cercata perché ho delle radici, se ti interessano. Sai, come quelle dove ho incollato gnomi e folletti e che ti piacevano? Se ti interessano te le porto …

Ma… Ma…… Ma lo sai perché non ti ho risposto al telefono? Perché stavo chiedendo ad un mio vicino di casa che ha appena estirpato una pianta morta, se mi potesse relagare le radici! Magia!!

Ci vediamo domattina? Ti va?

C’è mezz’ora di autostrada tra di noi, vero, non tanta strada. Ma ci sono le famiglie, gli impegni.  Più per lei che per me: due ragazzi, un marito, il lavoro: dieci ore al giorno fuori casa.  Ma c’è quel filo che ci lega dalla prima elementare nonostante la vita, le scelte, nonostante tutto.

Arrivo all’appuntamento e la vedo, con il suo ragazzo più giovane, 14 anni,  l’apparecchio ai denti,  un metro e settanta (ma quanto crescono mi dico… non è che li concimano, i figli, come si fa con le piante?).

Un abbracccio, due chiacchiere. Poi lei mi dice: ti va se andiamo un salto da mia mamma? E come no…
Ok.
Lei sale sulla sua auto io sulla mia. Conosco la strada: ho abitato per anni a due passi dalla sua casa.
Ci vediamo là .. Ok, a tra poco.

La grande casa è sempre la stessa, sono anni che non ci vado ma …
Varco la soglia, e ho dieci anni, le calzine corte bianche, e sono li, per andare all’oratorio insieme. L’aspetto un po’: lei deve aiutare a sparecchiare.
Entro nel grande soggiorno: mi vengono incontro due laghi che sono gli occhi della signora AnnaMaria. Occhi abituati ad essere presenti ovunque, con tutti quei ragazzi cui prestare attenzione, cui dare dolcezza e protezione e cura. Il tavolo è sempre lo stesso di allora. Un tavolo grandissimo, per una famiglia numerosa.
Parliamo di questo, di altre cose, e poi del nipote, l’altro figlio della mia amica,  che si è divertito alla notte bianca. Lei domanda cos’è sta notte bianca. La notte bianca è una notte di festa, di musica in strada. Scuote la testa e ridendo dice: sai quante notti in bianco ho fatto io??

Ehhhh Lo immagino…

Parlo con lei: parla la mamma, la nonna e sono tanti, figli e nipoti. Una grande famiglia. Le domando: ma quando vengono tutti come si fa?

Ehhh! Quando succede, per esempio a Natale, è come fare un trasloco. Tavoli, cavalletti e assi, e piatti e posate, e sedie che vengono raccolte da ogni dove. Come si fa… Facciamo due turni!

Guardo la mia amica e mentre io lo penso, lei dice che lì dentro il tempo si è fermato, che solo lì trova il sereno, la tranquillità, il giusto ritmo del cuore del respiro, e la pace.

Mentre lo dice penso che in quella casa c’è qualcosa di speciale. E ancora una volta sento che la serenità, la gioia, l’amore, restano nei muri, si rifugiano tra le mattonelle del pavimento e … restano, restano incuranti del tempo. Restano.
Ho sempre pensato che le case sanno conservare l’amore e restituire un senso di serenità profonda e di pace e stamane è stata una conferma. La provavo a casa dei miei nonni, e l’ho provata stamane.

Beviamo il caffè e poi usciamo in giardino. Il giardino sul retro della casa non lo ricordavo. Così grande e con la fontana che ora però è diventata una fioriera. La signora AnnaMaria mi racconta dei giochi dei bambini con i pesci rossi quando nella fontana c’erano i pesci rossi. Ammiro le sue piante grasse, grandissime, i fichi d’India, i cactus.

Frugo nei suoi ricordi: mio padre avrebbe la sua età: loro due sono cresciuti a pochi metri. Le chiedo di questo e ottengo conferma: cortili comunicanti, famiglie contadine, poi la guerra che erano bambini. Volgo lo sguardo verso il cortile che fu l’infanzia di mio padre e la sua, è che è li vicino alla grande casa.

“Un giorno venne tua nonna da me, allora ero fidanzata, e mi chiese se il mio fidanzato (l’uomo che poi sposò, che era carabiniere) poteva intercedere perché fosse concessa una licenza al tuo papà, che era a militare. C’era bisogno di falciare il fieno. Mi portò sei uova”.

Ho già detto in questi spazi che non amo i ricordi. E stamane niente è stato un ricordo ma un regalo del tempo. Sono stata bene. In certe case è perfino possibile fare pace con il tempo, almeno per un po’. Riesce perfino a me.

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SCATOLE

Soffro di anoressia.
Nei confronti dei giornali, dei notiziari tutti, dalla TV al web. Non voglio sentire. Non più. 
C’è crisi, è vero, si sta male. Un pianeta diviso, tra poveri e ricchi. Poi: violenza per le strade, furti e rapine in aumento, ovvia conseguenza di quanto sopra. Una umanità per mezzo povera, che costituisce ricchezza per l’altra, che è sempre più ricca.

Un futuro incerto, fantasmi dietro la porta, il terrore di andare in azienda il lunedi mattina e trovare il cartello CHIUSO.

E questi sono gli argomenti che si sentono in continuazione, sul treno, per strada e ovunque. Nei tiggì, sui giornali. Dappertutto. In ufficio poi non parliamone: l’ambiente in cui lavoro è una perfetta vetrina su questa situazione, difficile, pesante, che fa paura, che scoraggia qualsiasi iniziativa, capace di uccidere ogni azione di buona volontà, annientare qualsiasi intrepido tentativo di costruire, fare, inventare.

Questo, che piaccia o no, è il mondo in cui viviamo.
E ok. Ok. OK!!!
Ma parlarne in continuazione non serve, non fa bene al cuore, non aiuta. Serve fare, non parlare. Agire. Lamentarsi, lagnarsi, martellare in continuazione sé e il prossimo fa solo del male, accorcia la vita, di sicuro.

Più che mai c’è voglia, necessità, urgenza di  leggerezza, di calore, di colore, di alito. Di ballare e di correre, di bagnarsi quando piove, di camminare a piedi nudi.
Che ci sarà mai di così tanto bello nei giorni per ballare? Appunto, c’è bisogno di sentire il battito della vita.
Crogiolarsi serve a poco, prendere atto e adeguarsi a situazioni nuove, cambiare, se necessario, questo è più utile. E imparare a vivere momenti di serenità, volersi bene anche più di prima, può fare la differenza tra un giorno grigio e freddo e un giorno caldo e colorato.

Chi scrive non è  per nulla una che vede “il bicchiere mezzo pieno”. Tutt’altro. Ha un’anima grave e greve, pensieri pesi, sempre e comunque. E non è nemmeno una che non teme i fantasmi: li vede ogni giorno, incombono, e in parte hanno già divorato alcuni sogni e speranze, deluse aspettative, generato dolore e amarezze e lacrime. E’ una persona che ha imparato ad accettare. Già, accettare. Che è differente dal rassegnarsi.  Accettare le perdite, e andare avanti, mezza morta, ma andare avanti.  Si impara, si impara e si cresce, e si può fare: anche senza l’aiuto del cinismo, si può imparare ad “accettare”. Quando non si può fare niente per cambiare occorre saper accettare.

Ma ci sono cose che bisogna imparare a cambiare, se si vuole sopravvivere, e si può cercare di farlo.  Allentare le catene,  guadagnarsi la libertà dell’anima, quella del cuore:  abbandonare le finte certezze. Non ne abbiamo, di certezze. La vita di chiunque può cambiare in un nanosecondo. Può crollare tutto, in meno di un istante. E allora? E allora occorre imparare a cambiare prospettiva, abbandonare, se serve, cose che fino a ieri ci hanno sostenuti, imparare a convivere con la precarietà, a tener sempre ben presente che tutto… cambia o può cambiare. E non necessariamente in peggio. Il che equivale anche liberarsi delle illusioni.  Come si fanno ad avere certezze? Come? Siamo appesi ad un filo, la nostra vita stessa lo è. La ipotechiamo?  Farlo oggi è più sciocco di ieri. La gettiamo via lamentandoci, vivendo nella paura? Se provassimo invece a tirare fuori il coraggio?

L’altro giorno si parlava, in blog, semmai le mucche volessero diventare Simmenthal… Bè.. noi stessi siamo esistenze in scatola. Forse non ce ne siamo accorti?

Cacciamo fuori le ditina dai buchini e digitiamo come pazzi su altre scatole, sempre più tecnologiche, sempre più leggere e piatte, sempre più touch, sempre più piccole ma .. scatole. Ci si illude di essere meno soli, ma siamo più soli che mai, disperatamente soli e in scatola. Veniamo al mondo, in scatola, con l’etichetta con sopra stampato il codice fiscale e il codice a barre, indelebili. Chiunque ci legge, ovunque, in un istante sa tutto di noi. 

Lontanissimi dalle creature che eravamo, capaci di allargare le narici e annusare, annusare la terra, sentire dove c’è acqua e dove c’è amore, sentire le stagioni sulla pelle e sentire con il pelo, rotoliamo, dentro le nostre scatole, che sositutiscono il pelo. Lo abbiamo perso tutto, il pelo e anche brandelli di pelle, ormai. Ma il pelo di latta, mica sente. E nemmeno protegge.

Portami a ballare, fammi ridere, accendi un fuoco, e fammi l’amore sulla terra. Fai finta che ci siano le stelle, inventale e raccontamele, e poi, perdio, abbracciami, sotto un prato di stelle e fammi sentire il fiato.

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TRIBUTO AL CANE

lui è Pepe, abita con me.

“Signori della giuria, il migliore amico che un uomo abbia a questo mondo può rivoltarsi contro di lui e diventargli nemico. Il figlio e la figlia che ha allevato con cura amorevole possono rivelarsi ingrati. Coloro che ci sono più vicini e più cari, ai quali affidiamo la nostra felicità e il nostro buon nome, possono tradire la loro fede. Il denaro si può perdere, e ci sfugge di mano proprio quando ne abbiamo più bisogno. La reputazione di un uomo può essere sacrificata in un momento di sconsideratezza. Le persone che sono inclini a gettarsi in ginocchio per ossequiarci quando il successo ci arride possono essere le prime a lanciare il sasso della malizia, quando il fallimento aleggia sulla nostra testa come una nube temporalesca.

Il solo amico del tutto privo di egoismo che un uomo possa avere in questo mondo egoista, l’unico che non lo abbandona mai, l’unico che non si rivela mai ingrato o sleale è il suo cane.
Signori della giuria, il cane resta accanto al padrone nella prosperità e nella povertà, nella salute e nella malattia. Pur di stare al suo fianco, dorme sul terreno gelido, quando soffiano i venti invernali e cade la neve. Bacia la mano che non ha cibo da offrirgli, lecca le ferite e le piaghe causate dallo scontro con la rudezza del mondo. Veglia sul sonno di un povero come se fosse un principe. Quando tutti gli altri amici si allontanano, lui resta. Quando le ricchezze prendono il volo e la reputazione s’infrange, è altrettanto costante nel suo amore come il sole nel suo percorso nel cielo.

Se la sorte spinge il padrone a vagare nel mondo come un reietto, senza amici e senza una casa, il cane fedele non chiede altro privilegio che poterlo accompagnare per proteggerlo dal pericolo e lottare contro i suoi nemici, e quando arriva la scena finale e la morte stringe nel suo abbraccio il padrone e il suo corpo viene deposto nella terra fredda, non importa se tutti gli altri amici lo accompagneranno; lì, presso la tomba, ci sarà il nobile cane, con la testa fra le zampe e gli occhi mesti, ma aperti in segno di vigilanza, fedele e sincero anche nella morte”.

George Graham Vest 

Pepe

George Graham Vest  è stato un politico e avvocato statunitense.

Nel 1869 Vest sostenne in giudizio le ragioni di un uomo del villaggio di Big Creek, Charles Burden, il cui cane da caccia, un American foxhound di nome Drum (meglio noto come “Old Drum”, il vecchio Drum), era stato ucciso a fucilate da un tale di nome Samuel “Dick” Ferguson, guardiano di un vicino allevamento di pecore di proprietà di un cognato di Burden, Leonidas Hornsby. Ferguson aveva sparato solo perché Drum era entrato nella proprietà di Hornsby e costui rifiutava di risarcire Burden, nonostante le richieste di quest’ultimo.  Burden portò allora la controversia (nota ufficialmente con la denominazione “Burden v. Hornsby”) davanti al tribunale della Contea di Johnson, chiedendo un risarcimento di 150 dollari, il massimo all’epoca consentito dalla legge, a titolo di indennizzo sia del danno patrimoniale che, e soprattutto, del danno morale per la perdita dell’amato cane.  Vest, incaricato da Burden di assisterlo, esordì in giudizio asserendo che avrebbe “vinto la causa o chiesto scusa a ogni cane del Missouri”. Quindi, il 23 settembre 1870, Vest pronunciò l’arringa finale alla giuria, un’orazione che sarebbe divenuta celeberrima, sotto il nome di “Eulogy on the dog” (elogio al cane; nota anche come “Tribute to the dog”, tributo al cane).

ALLORA

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….. VISTO CHE E’ STATO COMMENTATO UN MEDIA (LA FOTO) ECCO A VOI IL POST!!! I COMMENTI NON POSSO COPIARLI. LI ASPETTO VOLENTIERI SOTTO  UN GIUSTO E MERITATO POST DEDICATO AL SOLO FELINO CON CUI IO ABBIA DORMITO…

chiedo scusa a SirBiss e a Pinuccia per i loro “commenti perduti”  e le invito a ripeterli. Non so come fare a recuperarli.

FIATO IN CONTROLUCE

Un post che non è un post ma un saluto, un contatto. Sono giorni frenetici qui, al lavoro, e poco tempo per le chiacchiere, poco tempo per tutto. Ma una capatina in controluce come si fa a non farla? La mia web casetta preferita. Ha fatto molto freddo qui, domenica si è acceso il camino. Ieri sera non vedevo l’ora di infirlami sotto il .. piumone. Ebbene si, 21 maggio – piumone. 19 maggio camino acceso.

Sono fioriti gli iris e le peonie nel giardino e sebbene non ami i fiori recisi, me li sono trovati dentro casa: la pioggia li avrebbe uccisi poveretti. C’è stata anche grandine. Profumano tutta la sala, sono una meraviglia. Pare strano che da un fiore così delicato com’è l’iris possa sprigionarsi un profumo tanto forte e deciso.

Ho rimandato un fine settimana in montagna, con la mia nipotina, che per l’occorrenza è stata equipaggiata con tutto ciò che serve ad una piccola esploratrice: scarponcini, zainetto contenente una piccola torcia che si carica con la manovella, una lente per scrutare insettini e piante, un fischietto perchè con noi ci sarà Pepe, uno dei tre cani, e una piccola coperta di tessuto leggero. E ovviamente un pacchettino di caramelle.  Il fine settimana doveva essere quello passato, e con grande dispiacere è .. saltato.  L’attesa per i bambini è qualcosa di infinito. Una settimana per loro è tremendamente lunga figuriamoci due.

Insomma questi pensieri non sono un post ma, lo avrete capito, un contatto, un modo per tenere vivo questo posto, per dargli fiato. Ecco. Prossimamente su questo schermo la fotografia dei miei Iris e delle mie Peonie.

Per ora un abbraccio affettuoso a tutti, pleiadiani e nonne, gatte e lucertole, agli IGM (ingegneri geneticamente modificati), ai  menestrelli della luna e anche alla luna, alla mia consulente dentistica preferita e amica di una vita, che risponde al nome di Carola, alle donne di lago, ai suonatori di clarinetto e anche ai clarinetti tutti. Ai gollum e agli elefantini e alle stelle. Alla mia nipotina che è bella come il sole ma anche come la zia. Ecco.   

MELESCAMBIO

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Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee.

George Bernard Shaw

 

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BUGIARDINO BLOG

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CONTROLUCE ®

Indicato per i dispersi nei meandri del tempo che non vogliono assolutamente trovare la retta via, a coloro i quali cercano l’essenza della vita ma non la troveranno mai perchè quello che gli piace è l’atto stesso della ricerca, chi ha solo certezze, ma tutte e sole quelle di non averne, chi ama la zia, chi va a portapia, chi trova scontato, chi come ha trovato na na na na na na na na na, ma il cielo è sempre più blu.
Per gli altri: vedere le controindicazioni. La controindicazione si intende assoluta quando mancano del tutto circostanze ragionevoli per intraprendere la lettura che dovrebbe portare migliorie alle condizioni del soggetto.

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO
Controluce: sempre.
Controcorrente:  spesso.
Controvento: qualche volta
Contromano:   capita
Controindicazioni: leggere attentamente il foglio illustrativo

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AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI
Gli amanti dei luoghi comuni debbono astenersi dal leggere il blog. Può causare effetti collaterali anche gravi.  Casi riscontrati:  1000/1000: “morbo della mucca davanti al passaggio a livello”, una sindrome che paralizza i muscoli facciali e forma, in mezzo alla fronte, un ruga profonda simile al punto di domanda. Questi effetti scompaiono dopo qualche istante aver premuto  il tasto “esc” – uscire dal blog –  e  ritorno alla vita normale.
Se il morbo persiste, contrastare con qualche lettura di altri blog, facilmente reperibili in tutte le piattaforme. Alcuni sono molto efficaci e soddisfano il bisogno di consolidare la propria fede.

Si raccomanda cautela nel leggere il blog ai sofferenti di permalosite acuta o grave. Chi ne soffre in modo lieve, la lettura potrà essere limitata a 10 minuti al giorno, scegliendo tra i tag più generici quali:  sociale, valori, storie. Nei casi più gravi si raccomanda l’assunzione di Antipermal mezz’ora prima della lettura, sciolto in mezzo bicchiere di acqua tiepida diluita con un cucchiaio di  Celestan 500 mg  che rende l’acqua di un particolare colore celeste. Le stesse avvertenze sono raccomandate anche a chi soffre di mania di persecuzione.

I soggetti  affetti da sindrome bau-bau micio-micio  devono assumere  il prodotto con scrupolosa cautela. Nei periodi di stress, si consiglia di assumere giornalmente visioni di “Un posto al sole” e  “Cento vetrine” in modo da controllare e diminuire gradualmente il tasso glicemico fino al raggiungimento di quello ottimale.

Pazienti con grave insufficienza empatica moderata o grave e quelli affetti da insufficienza simpatica anche lieve: astenersi assolutamente di usare il prodotto e anche solo di avvicinarsi: in caso di contatto consultare immediatamente Luca Giurato o Pippo Baudo.

Pazienti affetti da psicosi: nessun effetto collaterale riscontrato nell’osservazione di questi pazienti i quali hanno mantenuto inalterate tutte le disfunzioni esistenti prima della somministrazione del prodotto. Sono consigliate le misure prudenziali di base al fine di scongiurare ogni possibile peggioramento.

Depressione: I dati riscontrati dall’osservazione dei pazienti depressi sono ad oggi oggetto di valutazione. La costante assunzione del prodotto Controluce  ha rilevato in questi pazienti una diminuzione dell’uso di anti depressivi e un aumento dell’uso  di cannabis e grappa. Si sono verificati alcuni casi di allucinazioni: qualche paziente ha giurato di aver orbitato, pedalando, attorno alle Pleiadi e altri di aver stretto la mano a gnomi nel bosco.

POSOLOGIA
Alla bisogna.

ASPETTO
Il prodotto viene aggiornato senza alcuna regolarità né preavviso.  Anche la confezione è soggetta a variazioni che dipendono esclusivamente dall’umore del suo produttore.

COSA FARE NEI CASI DI EMERGENZA
In caso di intossicazione del prodotto assumere immediatamente otto tavolette di cioccolato fondente 70%. Se associata a crampi si può ricorrere a massaggi. Sulle Pleiadi li sanno fare molto bene.  Per informazioni sui voli consultare la Pieffe Air Company. Assolutamente no low cost..∞

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Il presente foglio illustrativo è soggetto ad integrazioni ed aggiornamenti. Gli utilizzatori del prodotto sono invitati a segnalare eventuali effetti, positivi e negativi al fine di ampliare le conoscenze acquisite.

 

RELAZIONI

RELAZIONI

Dire solo ciò che si sa fa piacere all’altro, essere accondiscendenti, ammiccanti,  prestare cura e attenzione al fine di non urtare i sentimenti dell’altro, in poche parole astenersi dal dire ciò che si pensa perché potrebbe offendere. Recitare durante telefonate e incontri, insomma indossare l’abito del perfetto amico, l’atteggiamento “come tu mi vuoi”.. Ecco il “quadro vero dell’amico finto”.

Nascondersi, reciprocamente,  ciò che si pensa,  è di per sé sufficiente per diagnosticare il grado di malattia di una amicizia o presunta tale. Perché dunque molte volte ci si prende in giro? Perché non si ha il coraggio, per davvero, di dare il nome giusto alle cose? Perché si ha bisogno di finte relazioni? Per solitudine? Per disperazione? La non solitudine non è una questione di numeri. Si può essere soli pur avendo dozzine di persone che quotidianamente fanno in qualche modo parte della nostra vita, che gravitano con e dentro la nostra esistenza.

Con alcune persone ci si diverte, si gioca, ci si racconta, si studia, si lavora… Si condividono tempo, esperienze, viaggi. E vanno benissimo, si può stare bene con alcune persone pur non avendo mai avuto interesse di approfondire oltre, di condividere qualcosa di differente di un cinema, una pizza, un aperitivo, una gita, un giro di shopping. Anzi, direi che questi sono rapporti veri, sinceri, spassosi, salutari e sani, proprio perché non pretendono di essere “altro”. Non gli si incollano attributi che non hanno, sono quello che sono senza alcuna presunzione.

Ma.. se si vuole condividere veramente qualcosa di importante, una relazione non può prescindere dalla sincerità e deve mettere in conto che ci si può sentire dire l’opposto di ciò che si vorrebbe. Spesso le cose non dette fanno crollare l’impalcatura sulla quale si costruisce una relazione molto più delle cose dette, sbattute in faccia, quelle che magari arrivano che fanno un male cane. Ciò che si pensa dell’altro, dovrebbe essere nutrimento di un rapporto e non la mano che lo uccide.  Dovrebbe permettere un confronto vero, dovrebbe crescere e far crescere. Migliorare e migliorarsi.

“Non le  dico questo sennò ci rimane male”, “dico questo così farà piacere”, “non tocco questo argomento perché è spinoso”, “questo di certo offenderà”. E cosi di questo passo, ed eccoci dentro un qualcosa di formale, con aspetti terribilmente diplomatici/burocratici dove tutto è pesato, misurato, calcolato, attento. Perfino i muscoli facciali sono controllati, non sia mai che tradiscano il vero sentire. Insomma  una specie di compito che si assolve dentro un clima che è tutto un tacere, non dire, recitare, mentire, fingere. Che senso ha? È faticoso da morire oltre che inutile, insulso, banale.

Ho sempre immaginato dei centri concentrici attorno al cuore e negli spazi, più o meno vicini ad esso, ci sono le persone che partecipano alla nostra vita affettiva, gli affetti, più o meno importanti, più o meno profondi. Ecco, la “profondità” è il sistema con il quale si “misura” l’importanza di un rapporto. La profondità. Quante volte ci capita di vivere davvero un rapporto profondo, nel corso di una vita? La profondità è qualcosa di raro davvero: ci si accorge man mano che il tempo passa e si diventa grandi ed eventi, emozioni, esperienza e tempo fanno da cesoie. Perché il tempo diventa sempre più prezioso, perché si preferisce la solitudine alle farse, perché si pretende maggiore qualità e minore quantità di tutto. Di cibo, di riposo, di vacanze, di letture, di sport, di piaceri, di cose, e anche di sentimenti, di relazioni, di persone. Perché si prova un disperato bisogno di dare il giusto nome alle cose.
Quanti volti ha quella che comunemente chiamiamo con lo stesso nome: amicizia.
C’è quella morbosa, maliziosa, possessiva, claustrofobica, malata.
C’è quella che non accetta il confronto, la sincerità del pensiero, la libertà, il bene dell’altro, quella gelosa, quella faziosa, quella contorta. Quella che non permette di essere sé stessi. Ecc… ecc.
Infine quella secondo Facebook ma qui basterebbe sostituire alla parola amico la parola contatto e tutto andrebbe a posto.

L’amicizia è qualcosa di denso e di speciale, delicato eppure fortissimo, sa sfidare il tempo e non conosce ambiguità. Resiste ai periodi di separazione anzi, ne trae vantaggio. Tiene porte aperte per lasciar entrare e anche uscire. E soprattutto non può esistere senza dirsi ciò che si pensa veramente. Non condivide tutto per forza, è altra cosa della simbiosi. Ma quando lo fa, lo fa profondamente. È un affetto vivo, che si rinnova e si confronta ogni giorno, evento dopo evento, gioia dopo gioia, dolore dopo dolore. È quel sentimento che non passa mentre tutto va … Se invece passa allora vuol dire non c’è mai stato per davvero.

Francesca Pacini, sul Mulino di Amleto fece un bel post sull’amicizia. Un passo diceva più o meno questo “Non le piacciono le situazioni di circostanza, come i complimenti o le condoglianze dovute ma non sentite. Niente convenevoli, belletti, lusinghe. Quelli vanno bene per il bridge delle anziane signore perbene. Non è perbene, l’amicizia, magari ti segue passo passo, non interviene ma di sicuro non tace neanche. Può essere perfino aggressiva. Di certo è scomoda. E poi è spettinata, non si fa la messa in piega”

testo integrale qui:

http://www.francescapacini.it/15-blog/diario-di-bordo/14-sull-amicizia.html

GIOIELLI DEL LAGO

villa del balbianello, lenno, como, foto mia 12.09.2010

In Controluce ci piace cambiare lo sfondo. Da ieri, anche in occasione della Giornata del FAI, appare uno scorcio del parco della Villa del Balbianello, situata a Lenno, Lago di Como, in una posizione mozzafiato. Nel post sottostante Pieffe e Pinuccia hanno manifestato la loro meraviglia. Essi sanno riconoscere il bello anche da uno scorcio. Fatto del resto normale per i frequentatori di questo sito. Modesta eh?

Allora, perché non pubblicare le slides della Villa del Balbianello dal collegamento del FAI? Eccolo. Guardatelo, ne vale davvero la pena. Buona visione a tutti, con uno dei gioielli del mio lago.

http://www.flickr.com//photos/fondo_per_l_ambiente_italiano/sets/72157622948401281/show/

GUARDA CHE LUNA …

ammiratelo meglio qui:  http://vimeo.com/58385453

grazie a Pinuccia della segnalazione

∞.∞

Pubblico le tre fotografie che mi ha mandato Pieffe, di cui agli interventi di questo stesso post.  Fategli tutte le domande che volete. Mi ha promesso che le sue orecchie sono a disposizione di Controluce, almeno per un po’. Approfittiamone perchè è un tipo un po’ impegnato. Scrive libri, tiene conferenze, studia, tiene corsi, deve provvedere a sette mogli sette e naturalmente seguire Controluce, un paio di gatti e gatte e molte altre cose ancora. Insomma: CARPE DIEM! (per Fabrizia SirBiss, pescatrice non pentita:  una carpa al giorno).

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Grazie Pieffe per questi documenti straordinari.

 Ofiuco e Sagittario 1930 oss di Torino

 Settembre 1919- Monte XDWilson Cratere Copernico

 

Pleiadi

DEL MARE

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Non lo trovo triste il mare in inverno. Forse perché in questo periodo, più di altri, mi manca una dimensione umana. Mi manca di sentire che sono una persona e non qualcosa che corre e lavora, fa la spesa, parcheggia, va alla posta, sale e scende dai treni. In questo tempo che fa male, si respirano paura, sconforto, tristezza, e anche panico. Sono spariti i colori dagli occhi e dai discorsi della gente, l’entusiamo, i progetti. E’ sparita la speranza. Fra tutte queste sfumature di grigio verso il nero che avvolgono i giorni, mi manca il passo lento di un giorno che sa essere tempo da masticare piano. Un tempo da assaporare con lentezza, un tempo che non sia tempo da ingoiare. Un tempo che non comprenda frasi come “menomale è venerdi” un tempo in cui ogni giorno è un giorno da vivere, e che lascia anche un po’ di malinconia quando arriva sera. Una malinconia breve: il tempo che si accendono le stelle per tornare a godere della sera, e poi della notte e che mostri l’aurora come un buon giorno, foriera di luce e di speranza e di gioia. Ecco perché, forse, penso spesso al mare, alla culla che sa essere, e alle sferzate che sa dare. Ci si può perdere un po’, nel mare e percepire la leggerezza del corpo che si muove, in modo naturale e lento, l’acqua sa massaggiare il corpo e anche i pensieri, isolare dal rumore, allontanare la polvere dagli occhi e dal cuore. Accando al suo respiro, nella baia calma di una notte sotto le stelle bianche e la sua voce, così lontana dai motori, dalle luci e anche da quella che mi tocca essere ogni giorno che ingoio, tranne brevi momenti in cui posso essere davvero quella che sono. Una persona.

foto: francesca

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STAGIONI

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È un bel po’ che non scrivo cose mie, forse un anno.  Per cose mie intendo quelle cose che si sentono nel cuore, e che si cerca di tradurre in parole. Ho provato a farlo, ma le parole escono screpolate, incartapecorite. Non trovo la morbidezza elastica e umida della spontanietà. E allora so che si sbriciolerebbero, come accade alla vernice sotto il sole.
Lo abbiamo detto tante volte, le parole hanno tanti limiti, hanno la gola secca, e sanno arrivare come carta vetrata, come sabbia a bordo del vento o sale che asciuga.

Gli eventi determinano le stagioni del cuore, ci sono lunghi autunni e inverni ancora più lunghi che fanno il mestiere che debbono fare. Come sospendere, congelare, custodire. Pensare.
Mi manca, mi manca molto quel bisogno urgente di trattenere i pensieri per l’impossibilità di scriverli da qualche parte, prima che sfuggano via. Mi manca trovare  “bella” la parola, rileggerla e trovarla adatta, giusta, come un vestito su misura, come un colore che si addice al pensiero quando è nato.

Stagioni. E a proposito di stagioni, riporto qui una cosa di Charlie Chaplin. E l’augurio di una buona settimana a tutti quelli che passano di qui.

♦♦♦

Com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io. Oggi so che questo si chiama “rispetto”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere. Oggi so che questo si chiama “maturità”…
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama “stare in pace con se stessi”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi. Oggi so che questo si chiama “sincerità”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: persone, cose, situazioni e tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso… all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”… ma oggi so che questo è “amore di sé”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E così ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama “semplicità”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo. È la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo “perfezione”.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l’intelletto è diventato un compagno importante. Oggi a questa unione do il nome di “saggezza interiore”.
Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.  Oggi so che tutto questo è “la vita”.

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SOMMINISTRAZIONI & DISTRAZIONI

Truffe2Se non si vuole qualcosa bisogna provvedere a darne disdetta.
Questo è uno degli  assurdi, infidi, subdoli sistemi per rubare soldi alla gente. Espedienti bassi ma redditizi.  E legali.  A cascarci sono soprattutto ragazzini, ma anche tanti adulti. Un esempio? Le suonerie dei cellulari. La pubblicità promette l’invio gratuito della suoneria con il cagnolino che fa bau bau,  il gattino miao miao,  il Titti ecc. E gratis, la suoneria arriva. Quello che però non viene spiegato  (se non successivamente ovvero al ricevimento della suoneria gratuita e in modo molto mimetico) è che, chiedendo di ricevere la suoneria, automaticamente accetti e sottoscrivi un contratto. Che prevede l’invio periodico e sistematico di ulteriori suonerie, ovviamente a pagamento, che se non vuoi, devi disdire entro tot giorni precedenti il giorno previsto. Ogni suoneria è, manco a dirlo, salatissima: il costo viene prelevato dal credito telefonico prepagato o addebitato sulla bolletta per chi non usa il prepagato. Tra l’altro, prova a disdire! Ti rimbalzano da un numero ad un altro, da un operatore ad un altro, con lunghissime attese, e ovviamente a costi elevatissimi. Conosco una ragazza, forse un po’ ingenua e molto giovane ma per niente stupida, che ha avuto questa triste esperienza. Il giochetto le è costato, tra suonerie non richieste e tentativi di disdetta, quasi 200 euro. Altre cose funzionano in questo modo. Si gioca sulla distrazione, superficialità, facilloneria del consumatore. E sulla fragilità della memoria. Truffe legalizzate dalle quali per difendersi occorrono mille occhi e orecchie e, nel caso, un sistema efficiente per gestire le scadenze. Personalmente mi è accaduto questo: abbiamo un abbonamento TV a pagamento, piuttosto basic, comunque senza il canale calcio in quanto non interessa minimamente. Un giorno arriva un avviso:  per due mesi avremmo avuto il canale “calcio” gratuitamente e che sarebbe stato considerato acquistato per un intero anno se non fosse pervenuta disdetta entro il xyz giorno precedente il termine della promozione gratuita. In breve: non era possibile rifiutare la promozione (e mi pare già un abuso), inoltre veniva imposto l’onere di inviare la disdetta. Così altre cose. Compagnie telefoniche (colossale business, si sa) che propongono servizi non richiesti (TG24 ecc) che se non vuoi devi disdire. Terribilmente subdolo e terribilmente pericoloso e altamente redditizio. D’altro canto viviamo in un paese dove  la donazione dei propri organi (cosa ben differente dal Titti versione Nokia cui è semblato di avele visto un gatto) è oggetto di silenzio-assenso. Ovviamente senza adeguata informazione. Anzi senza informazione alcuna sulla legge in sé. Dato che una risposta scientifica su quando si è veramente morti non la sa dare nessuno.

Vi lascio con l’augurio di una buona notte. Qualora non fosse gradito, mandatemi regolare disdetta!

MELAPOSTO E MELARUBO

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È una torta di mele ma un po’ differente dalla torta di mele tradizionale.  Provatela e poi ditemi se non è da leccarsi i baffi.

COSA SERVE
– 1 rotolo di pasta frolla
– 4 mele
– 1 cucchiaio di cannella
– 100 g di zucchero
– 2 cucchiai di fecola
– 100 g di farina- sale
– 100 g di burro
– zucchero a velo

COME SI FA
Stendere la frolla su una tortiera formando un guscio.
Unire alle mele tagliate a cubetti lo zucchero, la cannella e la fecola.
Mescolare bene.
Versare il composto sul guscio.
Preparare il crumble mescolando farina, zucchero, sale e burro a tocchetti.
Lavorare l’impasto formando delle briciole che verranno distribuite sulla torta.
Cuocere a 180° per 30 minuti. Spargere lo zucchero a velo.

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La foto la rubo a Frost
http://robertaenne.wordpress.com/2013/01/19/an-apple-a-day-keeps-the-doctor-away/#more-1070
mi collego in controluce proprio per pubblicare la ricetta della torta di mele, passo da Frost e cosa trovo? Mele!!

RUMORI CHE OFFENDONO

foto mia
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foto dal sito http://blog.mondodolomiti.com/12/skitour-cortina-ampezzo-tofane.html

Funivia Cortina-Cima Tofana.  Il secondo tronco sale a Ra Valles a 2.475m. C’è un rifugio e una vista mozzafiato (l’ultimo tronco che termina a Cima Tofana è aperto solo in estate).
Le dolomiti, gigantesche, accolgono il sole che scende, e come per salutarlo si vestono di un rosa sussurrato.
Anche la neve brilla per l’ultima volta, pullulando di allegre stelline dorate che danzano per il sole. È il tramonto e tutto ma proprio tutto dovrebbe essere … Silenzio.
Ero a Ra Valles sabato scorso, al tramonto. Appunto. Non mancava nulla ma mancava tutto. Mancava il Silenzio.
Il rifugio aveva gli altoparlanti anche all’esterno e mentre il mio sguardo seguiva la discesa del sole che (appunto) faceva brillare la neve e colorare di rosa questi giganti di pietra urlavano la voce di Eros Ramazzotti, la pubblicità “volete perdere peso”? e poi le notizie “Bersani e Berlusconi… ” ecc ecc.
Ogni commento si perde. Si sarebbe perso il mio pensiero, il mio sguardo e forse anche, per un momento, tutta me stessa se solo ci fosse stato il Silenzio.
Invece no: la musica, la voce, il notiziario.  Offese. Offesa per il sole che calava, per le montagne che lo accoglievano, e per la neve che brillava. E per il mio cuore, per i miei occhi, per i miei pensieri.

Domenica sera, per puro caso, passando da Trento, a Torre Vanga  ho visto che c’era una mostra fotografica dal titolo: I Silenzi della Neve. L’ho visitata. Fatalità…
Fotografie di neve, dall’Archivio Fotografico Storico, immagini bellissime, tutte bianco e nero. Protagonisti: il Silenzio e la Neve. Fatalità…

E proprio dalla raccolta “Fatalità” gli organizzatori della mostra hanno scelto questa poesia di Ada Negri, che , stampata sopra un pannello scende dal soffitto. Il titolo è “Nevicata”.

Sui campi e su le strade
silenziosa e lieve
volteggiando, la neve,
Cade.

Danza la falda bianca
Nell’ampio ciel scherzosa,
poi sul terren si posa,
Stanca.

In mille immote forme
sui tetti e sui camini
sui cippi e nei giardini
Dorme.

Tutto d’intorno è pace;
chiuso in oblio profondo,
indifferente il mondo
Tace.

Ma ne la calma immensa
Torna ai ricordi il core.
E ad un sopito amore
Pensa.

qualcosa sulla mostra: http://www.giornalesentire.it/2012/dicembre/2919/isilenzidellaneve.html

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foto dal sito http://www.skiforum.it/forum/fotografia/13292-tutto-tofane-foto-dolomiti-sulle-tofane.html

STELLE

scattata da me

“Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che saranno ridere!”
E rise ancora.
“E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre), sarai contento di avermi conosciuto. Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me. E aprirai a volte la finestra, così, per piacere… e i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere guardando il cielo. Allora tu dirai” Sì, le stelle mi fanno ridere! “E ti crederanno pazzo. T’avrò fatto un brutto scherzo…”
e rise ancora.   “Sarà come se t’avessi dato, invece delle stelle, mucchi di sonagli che sanno ridere…”

dal libro “Il piccolo principe” di Antoine-Marie-Roger de Saint-Exupéry

PEPE

Questa sera ho fatto il solito giro a piedi, un’ora di passeggiata. C’era vento caldo, caldissimo, sembrava maggio, si stava bene. Pensavo leggero, guardavo i campi che ora sono a riposo, in attesa.  C’era Pepe con me, un setter di tre anni. Sono inciampata, senza cadere, ma lo sforzo per rimanere in piedi mi è costato un dolore piuttosto forte alla schiena per cui mi sono fermata. Pepe si è bloccato (era un po’ più avanti il guinzaglio è lungo), si è voltato, mi ha raggiunta camminando lentamente, orecchie alzate, il muso serissimo e mi si è avvicinato, con cautela e delicatezza. Ho dovuto rassicurarlo, era evidente che si era spaventato ed era preoccupato. Sì, preoccupato. La cosa è accaduta mentre si tornava, a un paio di chilometri da casa. Per tutto il tempo, ogni tanto si fermava, e mi guardava, e poi con estrema delicatezza si alzava sulle gambe posteriori appoggiandosi a me,  cercando di avvicinare il suo muso al mio viso. Non è solito farlo, se non quando mi saluta. Era più che evidente che voleva essere rassicurato, aveva capito che era successo qualcosa e che non stavo bene. E ancora una volta ho pensato a quanto sanno dare questi animali a differenza della gran parte del genere umano. A quante volte chiamiamo “amore” ciò che è altro… A quante volte passano inosservati  alle persone  dolori, assenze, giorni bui e freddi. La tristezza, la solitudine.  A quante volte non vengono ascoltate parole o silenzi, a quante volte viene negato una parola, un gesto, un abbraccio, una carezza, un po’ di …. tempo.  Lo sguardo  di un cane è un  abbraccio che sa scaldare il cuore. E anche guarirlo.

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pepe
vabé insomma mi hanno fatto una foto bruttissima ma io sono bellissimo. Celestina mia ha promesso che mi farà una foto con la luce giusta, io in compenso ho promesso che poserò … IMMOBILE.

CORRIERI DAL CIELO

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foto dal web: wallpaperswide.com

Questa notte, verso le 4,00, mentre dormo profondamente, qualcuno suona. Un’occhiata al videocitofono: NULLA, nessunissima immagine.  Chi è? Chi è? Una vocina acuta e sottile come quella di un bambino arriva a malapena dall’apparecchio: sono iooooo sono quiii ma non mi vedi? Sono piccino, è vero ma insomma non ce la faccio più di saltare. Apri!!! Insomma, mi vuoi aprire questa maledetta porta? Infilo vestaglia e pantofole e scendo. Apro la porta e  il… coso… della foto entra in casa correndo come un razzo, e si dirige verso il camino (spento). Lo guardo, allibita e penso: ecco, sto avendo un incubo, eppure ieri sera non ho partecipato ad alcun cenone, non ho bevuto. E non fumo niente, nemmeno la sigaretta elettronica che va tanto forte di questi tempi. Lo seguo, e questo mi dice: senti ma un po’ di legna nel camino noooo? Io vengo da Roma, ho volato fin qui e sto morendo di freddo.  Da Roma? domando io. Ma chi sei? Lui: sono una matricola della PCS-Pieffe Costellation Shool! Chi potrebbe mai essere, secondo te, uno combinato così? Dovevo immaginarlo che dietro a ‘sto coso pelosetto e piccino c’era Pieffe. Accendo il camino e dopo un po’ il topo parte con lo spiegone che, per compassione, vi riassumo solo brevemente. Il poveretto è l’allievo n. 75893P di Pieffe. Prende lezioni di volo, per il momento, (… e qui .. non ho osato chiedere notizie sul  dopo-lezioni di volo, ho avuto paura giuro). Pieffe, perché si allenasse, lo ha mandato da me per consegnarmi un pacchetto espresso urgente. Fatta la predetta spiega, si ripiega ben bene le ali, si mette sul divano e si copre con un plaid. Io vado in cucina, preparo una tisana calda e quando gliela porto lo trovo addormentato. Secco secco. Gli metto un secondo plaid sui piedini gelati, e apro finalmente il famoso pacchetto. Destinatario: CelesteChiaro,  Riservato-Personale Urgente.  Timbro blu, una serie di stelle: riconosco la costellazione di Orione. Dentro che c’è? Ve lo dico prossimamente a meno che Pieffe non voglia farlo di persona. Cosa che sarebbe gradita,  date le circostanze. Insomma il topo, che era arrivato semi congelato, adesso è qui, al caldo, vicino al mio camino e dice di non saper più tornare.  Suggerimenti?

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2012 IN CONTROLUCE.

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.

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Ecco un estratto:

2012: 4,329 films were submitted to the 2012 Cannes Film Festival. This blog had 25.000 views in 2012. If each view were a film, this blog would power 6 Film Festivals

Nel 2012, ci son stati 50 nuovi articoli, che hanno portato gli archivi totali del tuo blog a 409 articoli. Hai caricato 135 immagini.

Il giorno più trafficato dell’anno è stato 16 marzo con 211 pagine lette. Il messaggio più popolare quel giorno fu LA CHICCA – UNO.

Attrazioni nel 2012: ecco gli articoli più letti nel 2012.

Alcuni dei tuoi articoli più popolari sono stati scritti prima del 2012. I tuoi scritti restano!

(fin qui è scritto da WordPress, compreso il sottotitolo che cita i folletti!!!)

 

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da me:

Grazie a tutti e a tutti un abbraccio affettuoso per un tempo che sia foriero di luce e di tante piccole cose belle. Piccole perché è lì che sta la bellezza, dentro le piccole cose: lo diciamo sempre, qui.  Cerco di nominarvi tutti, questo blog è frequentato da 4 gatti ( ma che gatti! ) e questa è una ragione in più per essere orgogliosa di questi “numeri” che stupiscono me, prima di tutti.  In ordine sparso: 

Marinz, cui devo, tra l’altro, la migrazione del sito e poi tanti motivi di riflessione.
Pieffe, orecchiette, speciali sapienti e acute oltre che straordinariamente intuitive. Devo molto a quell’essere  peloso, non solo per questo sito, ma per ciò che rappresenta nel mio Tempo.
Petula, la gatta filosofa e Lucertola, da preda ad allieva. Devo molto anche alla sua coda e al suo naso.
Pinuccia, donna e nonna intelligente, delicata e sensibile, si commenta da sé, basta leggerla.
Roberta (Frost), che si diverte con noi e tesse le foto come una moderna Penelope.
Sir Biss che porta odori di lago e profumo di salvia e rosmarino e tanta partecipazione. Che sa prendersi in giro come ahimé pochi sanno fare.
Riccardo: quando i “numeri” sono alti, per visite e interventi, dietro c’è spesso lui, a dibattere con orecchiette e gatte. Un altro pilastro di cemento armato qui e non solo qui.
Francesca Pacini (Mulino di Almeto): perché è a lei che devo l’incontro con Pieffe e Petula.  E anche l’onore di avere scritto su Silmarillon. Non scriverò MAI come lei ma proprio per questo è un piacere vero leggerla. Imparo.
Carola, dal cuore dolce e romantico: la sua sensibilità e il suo calore dentro casa hanno fatto spesso il lavoro di un plaid. Amica di una vita, non ci si vede quasi mai, ma noi ci siamo.
Simona dagli occhi blu, che si firma Lotus, per qualche verso così simile a me da sembrare quasi…. mia parente  😉
GilGanesh che ci manca molto, così come il Gollum: hanno creato tante divertenti sceneggiature:  ci hanno dato tanto cuore e tanti sorrisi. E fiato per questo posto.
Simonetta (Calembour), che delle parole ne ha fatto e ne fa un mestiere.
E poi a tutti quelli “qui non nominati”,  e anche a quelli che leggono regolarmente senza apparire e mi scrivono  le e-mail.

Celeste anno a tutti, dal cuore.
Orietta

ps perdonatemi questa seconda autocelebrazione … Giuro che è l’ultima.

MAGIE

Alcune cose saranno sempre più forti del tempo e della distanza, più profonde del linguaggio e delle abitudini: seguire i propri sogni e imparare a essere se stessi, condividendo con gli altri la magia di quella scoperta.

Sergio Bambarén – tratto da ‘Il Delfino’

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stelle

LETTERINA

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Caro Babbo Natale
Innanzitutto vorrei chiederti una cortesia ed è quella di levare il tuo sederone dal mio petto quando cerco di dormire, perché sei pesante inoltre soffochi il respiro.  Poi, quando capita che  si aggiungono le renne, francamente non ce la posso fare. Non riesco a respirare e mi sento morire. Ecco.

Quando ero piccola, tu per me non esistevi. Per me c’era Gesù Bambino che veniva la notte di Natale a farmi visita e mi lasciava qualche pensiero. Lottavo contro il sonno perché con la mia immaginazione vedevo quel piccolo bimbo ovviamente nudo, girare nel cielo e infilarsi in tutte le case dove vivono bambini, e, invece di gioire per questo, domandavo sempre a mia mamma se fosse giusto e bello che prendesse tanto freddo.

Tu invece hai il cappottone rosso, con il pelo, cappello e guanti e anche la barba. E viaggi con la slitta sotto coperte di peliccia: vuoi mettere? Inoltre, dato il tuo peso (e io lo so bene … ) hai una bella riserva di grasso a proteggerti.

Vabè comunque scrivo anche io la mia letterina.
Banalmente ti potrei dire: cancella il dolore dal cuore degli uomini, libera tutti i bambini dal morso della fame e da quello delle mosche, da quello del freddo e anche dal caldo. Carica tutte le armi del mondo sulla tua slitta e fa che si disintegrino nello spazio. E poi porta via tutti quelli che hanno il cuore marcio e l’anima corrotta. Per questo dovrai disporre di un posto molto, molto, ma molto grande, ma siccome l’universo è infinito,  dovrebbe verosimilmente bastare.

Sono le stesse cose circa che chiedevo già molti e molti anni fa al Gesù Bambino che girava per i cieli, tutto nudo e piccolino. Offrivo in cambio i doni che erano a me destinati, ma lui non mi ha mai ascoltata: come vedi anche tu il mondo è sempre peggiore e fa sempre più male.
La stessa cosa la feci quando mia madre stava per salutare il mondo e soprattutto me. Pregai fino allo spasimo non so nemmeno bene chi o cosa, barattando cose di me nella mia mente: ero un po’ più grande ma in fondo nemmeno tanto. Comunque sia non è servito a niente, e,  se tutto questo, se non lo ha fatto Gesù Bambino, non mi aspetto che possa farlo tu.

Ma…
Ma se davvero puoi fare qualcosa per me sola, allora avrei delle cose da chiederti. Vado.

Dammi la capacità di riconoscere il falso dal vero, gli amici dai nemici, chi mi vuole bene e chi invece mi usa. Dammi la luce per distinguere bene i contorni di tutte le cose, per vedere chiaramente la linea di confine tra il teatro e la vita, ammesso che esista un distinguo. Fammi capire qual è il sogno e qual è il vero, sempre che vi sia distinzione tra il sogno e il vero. Aiuta la mia anima a trovare l’uscita dalla caverna di Platone perché anche quando fa male, voglio vedere tutte le cose come sono per davvero, e non riflesse da luci perverse e artificiali.
Restituiscimi almeno una volta al giorno la voglia di giocare, non importa a cosa: un due tre stella, nascondino o battaglia navale o amore adulto da inventare.
Dammi la possibilità di riconoscere in fretta l’ambiguità delle persone e delle cose, di modo che io possa informarne le mie energie, perché si risparmino laddove sarebbero sprecate, ma si spalmino dove può crescere qualcosa di bello. Ma prima dovrai convincermi che ci sono buoni semi e buona terra.
Dammi una mano ad essere sempre me stessa, a sostenere e sopportare le incoerenze del mio cuore senza sentirmi soffocare dalla logica semplice e precotta di modelli spacciati come verità universali, comodo uso e facile consumo per chi non si fa troppe domande per tutta la vita.

In poche parole lasciami accanto al caminetto una fiducia consapevole.

L’ITAGLIA CHE TAGLIA (?)

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Un milione e mezzo di euro.
Pare sia questo il costo sostenuto per il nuovo software che avrebbe dovuto gestire i turni del personale di TRENORD. Non funziona. Da due giorni viaggiare corrisponde ad una situazione a metà tra Kafka e Fantozzi.
Ieri sera sono salita sopra un treno a Milano Cadorna alle 18.30, sono arrivata a casa mia alle 21.00. Percorrenza normale? 33 minuti.
Ma sono arrivata alle 21.00 grazie ad un passaggio in auto a due terzi del percorso.
Eggià, perché c’è anche stato un malore per cui si è aggiunta l’ambulanza. E quando arriva una ambulanza in stazione, non si sa bene per quale motivo, il treno DEVE aspettare che la persona venga presa in consegna dalla croce rossa. Perché? Non si sa. Basterebbe che un incaricato della stazione si occupasse della cosa e attendesse l’ambulanza, senza fermare centinaia di persone. Ma questo è solo un inciso.
L’altro ieri sera, situazione identica a quella di ieri sera.  Stamane pure.
Allora: NON riescono a gestire i turni del personale. Pare che il nuovo sotfware non sia satato testato. Nel mio piccolo – uno studio professionale sette persone in tutto – quando si cambiano i software si lavora in parallelo per un tot di tempo. Qui no… Eppure gestiscono linee ferroviarie e migliaia di persone e la sicurezza di migliaia di persone. E, detto tra noi, lo studio dove lavoro non brilla certo per capacità organizzative nè per altro..
Inoltre si può “tornare” al lavoro a mano.. Troppo difficile? Impossibile? O troppo costoso?
I treni vengono soppressi perché in questo modo non vengono riconosciuti i bonus che spettano in caso di ritardo. La soppressione dei treni NON rientra nella casistica “ritardo”.

Che dire?
Non ho parole, solo un grande senso di sconforto.
Ieri sera, per fare 30 chilometri di ferrovia ho impiegato tanto quanto il tempo che impiega un freccia rossa da Milano a Roma.
Stamane sono arrivata fradicia di sudore, ho viaggiato con i capelli di persone quasi in bocca, con la borsa stretta tra le mani e le ginocchia di non so chi.
E’ umiliante, a parte tutto, la totale mancanza di informazioni. Qualche annuncio (raro) arriva dall’altoparlante e sono voci ostili, senza una scusa, senza un minimo di cortesia. Sarebbe gradita perfino una forma fredda e asettica. Invece offendono. Loro. Capito?
Vorrei vedere i cedolini paga dei dirigenti e i compensi degli amministratori. O forse no. Forse meglio non sapere.

Stamane una signora ha raccontato che si era fermata a parlare con un macchinista il quale ha detto che loro “viaggiano a vista” e che neppure i percorsi sono sicuri. Che utilizzano i loro cellulari per muoversi sulle lineee. Cosa dobbiamo aspettarci? Un disastro ferroviario?

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/12_dicembre_11/trenord-treni-pendolari-disagi-nuovo-software-malfunzionamenti-2113108818399.shtml

 

CAMPANELLINI

 

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Nevica, un pochino. Nevica sulla città, nevica sulla campagna. Ieri era tutto bianco, da me, e ci potete credere? I cani da caccia non possono uscire nella campagna. Ma non voglio sollevare un polverone sulla caccia nè sulle leggi che regolano queste cose, non è mia intenzione, non è il momento, non c’è voglia di parlarne tantomeno cuore. Le siepi spinose di ginepro stanno bene anche senza noi dentro, e se ci entriamo rischiamo di non uscirne più. Vanno bene per questa stagione:  ginepro e bacche e agrifoglio, qualcuno ne fa ornamento per l’uscio di casa.  Pensavo, i giorni scorsi,  alla casa di mio padre, a lui che tornava dal suo orto con in mano la verza perchè aveva “preso la gelata” e allora sì, che era buona da mangiare. Arrotolo un gomitolino tra le dita e il filo dell’esistenza di mio padre mi conduce un pochino, come una bussola, verso i libri di Mario Rigoni Stern, dove le stagioni avevano un canto ben preciso, un suono ben preciso, ed erano anche annunciate in modo ben preciso: per l’inverno c’era il campanellino dello scricciolo, che lo annunciava. Lo scricciolo emette un suono che ricorda un campanellino d’argento. E il campanellino si chiamava neve. Ecco che si percepiva la neve, non dalle previsioni di  Meteo 24, ma grazie anche a un piccolo esserino piumato. Basterebbe ascoltare il campanellino d’argento per tirare fuori le pale e preparare la scorta di sacchi di sale, non serve internet, non servono i satelliti. L’anno scorso nevicò in gennaio, e il campanellino d’argento per me, dallo scorso gennaio, porta il nome di un amico che non amava per niente la neve però amava la musica. A volte penso ai fili che uniscono destini e colori, suoni, odori: chissà, forse “Preghiera in Gennaio” di De Andrè la porto dentro da sempre perché qualcosa ha sempre saputo,  al di là e oltre questo apparente “sé” che sarebbe stata anche una “mia” preghiera.  Dicevo, le stagioni e i passi di queste che depositano anni sull’anima. E neve. Un po’ si scioglierà, altra invece concorrerà a formare ghiacciai eterni che avranno una qualche utilità negli anni che verranno. Forse serviranno a far scivolare via le cose inutili, e i semi che sarà meno utile ma anche meno possibile piantare. La terra fertile, quella densa, nera e scura, quella che feconda e accoglie, occupa sempre meno spazio, ha un angolo sempre più piccino e più esigenze. Certe volte il vento, le parole, le offese, umiliazioni e il dolore la rendono sterile, inospitale, allora serve il tempo perché gli uccelli possano di nuovo posare cioè che serve. Eggià, come dice anche De Andrè, i fiori non nascono dai diamanti. Mai. Quando morì mia madre si abbassò una saracinesca sul mio cuore, la terra andò in letargo per tanto, tanto tempo e si formarono, sull’anima, ghiacciai. Era bello in un certo senso: non sentivo niente, dopo un po’ nemmeno il dolore. Ma come sempre sotto la neve c’è calore e presto o tardi qualche germoglio riesce a fare il suo buchino. Ma questo post scritto direttamente sulla lavagna bianca della pagina, è una riflessione a ruota libera dato che malgrado tutto, malgrado la ragazzina silenziosa e pulita, vestita di jeans e maglione, pettinata e in ordine, stamane all’angolo aveva un cartello con scritto “ho fame”, malgrado tante persone dopo le vacanze di Natale troveranno la scritta “chiuso” fuori dall’azienda, malgrado tutto, il motivetto orribile e offensivo “A Natale a Natale si può dare di più” riecheggia nella mente come un martello, malgrado anche tutte le Preghiere in Gennaio. Mario Rigoni Stern ora, vivrebbe delle sue provviste accantonate in estate, bollirebbe le sue zuppe sul fuoco della legna anche questa accatastata con pazienza e con rispetto. E con lo stesso rispetto mangerebbe la carne degli animali cacciati, con rispetto,  quando era tempo di cacciare. Uscirebbe il fumo dal suo camino e lui con i suoi cani accoccolati accanto, probabilmente leggerebbe, scriverebbe, e forse preparerebbe un vino caldo ai chiodi di garofano. Non lo so perché la mente mi porta questi pensieri: forse perché a volte c’è bisogno di anima e di pelle. Di cuore e di pancia. C’è bisogno di amore e di calore e di cose vere. I giorni pesano sui giorni, violentano l’anima e la offendono, siamo ricattabili, siamo pieni di colpe, compresa quella di “possedere” una casa o di non essere “congrui” con i coefficienti di reddito o di aver bisogno di farmaci che costano una fortuna.  Siamo macchiati del peccato originale, ce lo dicono da piccoli e per tutta la vita dobbiamo meritarci il perdono. E di chi?  E per cosa?  Personalmente non sono certa che questa vita sia un dono, spesso e per molti è una condanna.  Penso a chi non ha mai avuto un tetto sulla testa e a chi  mangerebbe la carta del nostro pandoro, quello che può dare di più.   Ma mi fermo qui, anche questo è un campo spinoso e anche minato.  Sabato scorso è mancata la nonna Rosa, la nonna di Silvia. All’ufficio delle onoranze funebri guardavo gli occhi di Silvia, infossati e lucidi mentre il titolare parlava di colei che fino a due ore prima era la sua Nonna Rosa chiamandola “la salma”. Siamo pazienti, contribuenti, utenti, elementi, matricole, risorse umane, consumatori, infine salme. Domani la nonna Rosa sarà cenere. Quando e per chi siamo uomini e donne? Ho finito di scrivere e è finito anche di nevicare. Fuori, intendo. Dentro è diverso. Ho sentito il campanellino d’argento qualche settimana fa. E nevica. Nevica. 

NOTTE

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La notte impone a noi la sua fatica magica. Disfare l’universo, le ramificazioni senza fine di effetti e di cause, che si perdono in quell’abisso senza fondo, il tempo. La notte vuole che stanotte oblii il tuo nome, i tuoi avi ed il tuo sangue, ogni parola umana e ogni lacrima, ciò che potè insegnarti la veglia, l’illusorio punto dei geometri, la linea, il piano, il cubo, la piramide, il cilindro, la sfera, il mare, le onde, la guancia sul cuscino, la freschezza del lenzuolo nuovo… Gli imperi, i Cesari e Shakespeare e, ancora più difficile, ciò che ami. Curiosamente, una pastiglia può svanire il cosmo e costruire il caos.

Jorge Luis Borges, Il sonno

DI STUP-ORI E DI LETTURE DI ORI

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(….) L’unica cosa di cui abbiamo bisogno per diventare buoni filosofi è la capacità di stupirci.

Tutti i bambini piccoli ce l’hanno. E ci mancherebbe altro. Dopo soli pochi mesi di vita cominciano a percepire una realtà nuova fiammante. Eppure a mano a mano che crescono questa capacità di stupirsi sembra attenuarsi (….)Se un neonato potesse parlare, avrebbe sicuramente molte cose da dire sullo strano mondo in cui è capitato. Tuttavia, se il piccolo non può esprimersi a parole, indica tutto quello che gli sta intorno, cercando al contempo di afferrare gli oggetti che si trovano nella stanza.

Quando comincia a parlare, può succedere che il bambino si fermi di colpo e dica: “Bau bau “ogni volta che vede un cane. Comincia ad agitarsi nella carrozzina, muove freneticamente le braccia e ripete:” Bau, bau, bau, bau! “.Allora noi, che abbiamo qualche anno in più alle spalle, ci sentiamo forse un pò a disagio per via del suo entusiasmo. ” Ma sì, ma sì, è un bau” rispondiamo, ormai abituati al mondo. “Adesso però fai il bravo, su!”. Non proviamo la stessa eccitazione: abbiamo già visto un cane. Una scena del genere si può ripetere centinaia di volte prima che il bimbo riesca a incrociare un cane ( o un elefante, o un ippopotamo) senza perdere il controllo. Tuttavia, molto prima che il piccolo impari a parlare nonchè a pensare in modo filosofico, il mondo sarà diventato per lui un’abitudine.

(….) La cosa più triste è che, crescendo, noi non ci abituiamo solo alla legge di gravità bensì al mondo così com’è. In altre parole, perdiamo a poco a poco la capacità di stupirci per quello che il mondo ci offre. Ed è una perdita grave, alla quale i filosofi cercano di porre rimedio. Nel nostro animo noi intuiamo che la vita è un mistero. E questa è una sensazione che abbiamo provato una volta, molto tempo prima che imparassimo a pensarci.

(….) Anche se le domande filosofiche riguardano tutti gli esseri umani, non tutti diventano filosofi. Per motivi diversi, la maggior parte delle persone è così presa dalle cose di tutti i giorni che il pensare all’esistenza occupa l’ultimissimo posto…

Per i bambini, il mondo, con tutto ciò che offre, è qualcosa di nuovo, di stupefacente. Non è così per tutti gli adulti, la maggior parte dei quali percepisce il mondo come un fatto ordinario.

I filosofi rappresentano una nobile eccezione. Un filosofo non è mai riuscito ad abituarsi del tutto la mondo che per lui continua ad essere assurdo, sì, enigmatico e misterioso. I filosofi e i bambini hanno in comune questa importante capacità. Potremmo ben dire che un filosofo conserva la pelle delicata di un bambino per tutta la vita.

(….) Un coniglio bianco viene estratto da un cilindro vuoto. Dal momento che l’animale è molto grosso, ci vogliono miliardi di anni per fare questo gioco di prestigio. Sulla punta dei suoi peli nascono i bambini. In questo modo hanno la possibilità di stupirsi di questa incredibile magia. Tuttavia a mano a mano che diventano vecchi, scivolano sempre più giù nella pelliccia del coniglio. E lì rimangono. Molti stanno così bene che non osano più arrampicarsi nuovamente sui peli sottili. Solo i filosofi si imbarcano in questo viaggio pericoloso alla ricerca dei confini ultimi della lingua e dell’esistenza. Alcuni cadono, altri però si aggrappano con tutte le loro forze ai peli del coniglio e gridano agli uomini che, comodamente sistemati nella morbida pelliccia dell’animale, mangiano e bevono in assoluta tranquillità. ” Signore e signori- dicono i filosofi- Siamo sospesi nel vuoto!” Ma agli esseri umani che vivono di sotto non importa nulla. Anzi, prima commentano:” Uffa che scocciatori” poi continuano a ripetere le stesse cose di prima:” Mi passi il sale?”, “Come va oggi la Borsa?”, “Quanto costano oggi i pomodori?”, “Hai sentito che lady Di aspetta un bambino?”.

Da “Il mondo di Sofia” di J. Gaarder

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TÈ – PER DUE, PER TRE, PER TRENTATRÉ

foto dal web
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Ho apparecchiato. La mia nonna avrebbe detto: con il servizio buono. Ma noi ci vogliamo bene tutti i giorni quindi non c’è il servizio buono e quello meno buono. Ecco. Accomodatevi. Se Ricc.  si ricorda i ceppi, presto sarà anche caldo.  Pieffe mi raccomando parcheggia bene l’astronave vicino alla staccionata e non sopra la staccionata (questi mezzi spaziali non sono fatti per la terra).  Una precisazione: di tazze nella credenza ce ne sono altre.

EH VABÉ !!!!

Chi mi conosce mi farà nera per via della mia allergia per le commemorazioni ricorrenze celebrazioni di ogni tipo

ma siccome nel post precedente leggo tante cose belle allora…. Ecco ..

1 CONTROLUCE, 400 POST , 5909 COMMENTI,  120 mila circa VISITE (Splinder+WP)

GRAZIE !

BELLEZZE AL BAGNO

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Creme cremine sieri fluidi pozioni lozioni.
Contro rughe, cellulite, seni piccoli, grandi, cadenti. Smagliature e cicatrici, pelle grassa magra mista. Segni di espressione, zampe di gallina ecc ecc.
Funzionano? NO! Lo sanno tutti, soprattutto le donne. Eppure sono le donne ad alimentare questo mercato che comprende sofferenze agli animali, enormi danni al portafoglio e anche all’autostima.

La maggior parte dei prodotti cosmetici contiene siliconi e paraffine e altri petrolderivati. Impediscono alla pelle di respirare, creando una specie di film che la soffoca. Per forza sembra lucida, liscia e levigata! Diventa di plastica! Il silicone NON è biodegradabile, non si smaltisce, resta nell’ambiente, figurarsi i danni che provoca alla pelle. Per questa ragione  sono state vietate, per esempio,  le protesi al silicone. Eppure quanti prodotti cosmetici lo contengono? Moltissimi. Davvero moltissimi.

Siamo bombardati  da “pelle visibilmente più giovane in sette giorni”, “capelli con la brillantezza del diamante”, “una pelle effetto cachemire”, “la chirurgia può attendere” .
Un mercato colossale, un business miliardario attorno a tante cazzate che noi donne ci beviamo. Ci  caschiamo  dentro con tutte le scarpe in questo mare magnum di illusioni, ci lasciamo incantare da affermazioni quali “test clinici dimostrano che ….. ” oppure “dalla ricerca scientifica, otto donne su dieci….”

Bè, lascio qui due trucchetti infallibili se qualche ragazza giovane avesse qualche dubbio sull’efficacia di un prodotto.

1) quando la bellona di turno nello spot recita “l’ho consigliato a tutte le mie amiche”  dubitate molto molto seriamente!

2) quando a consigliarvelo è una vostra amica: in tal caso abbiate la certezza assoluta. NON FUNZIONA!

Perché? Bè, semplice: se una donna scoprisse un prodotto così “miracoloso”, capace di far sparire le rughe o alzare le tette sollevare glutei o sconfiggere la cellulite NON lo confesserebbe mai. Nemmeno sotto tortura! Figurarsi consigliarlo ad altre donne!!

Perché ascoltare questi consigli?

Ma perché voi valete!

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Scusate una nota personale: questo è il quattrocentesimo post di Controluce. 400!! Che dire?  Grazie!  

COS’E’?

Credo tutti qui conoscono la mia passione per le immagini, per questo mi piacciono le fotografia, mi piace farne. Ogni tanto giro tra i siti di fotografie, e ho trovato questo sul sito WallpapersWide. Mi piace, mi piacciono i colori, mi piace l’oggetto.

Ma … Cos’è??

BLA BLA BLA

“Ma no.. quali mezzi? Figurati! Mio marito a Milano a lavorare ci va in macchina! Funzionassero, i mezzi a Milano… ma schifo come fanno, è impossibile!”

Conversazione captata dalle mie orecchie sul treno Milano Como, in prossimità della mia fermata, una sera di qualche settimana fa, tra due signore. Arrivata dritta dritta sui miei nervi già provati dalla giornata. Per fortuna un briciolo di saggezza ha fatto scattare uno dei pochissimi riflessi ancora svegli per cui  si sono serrate le mascelle attorno alla lingua.

Pura polemica, critica gratuita, luoghi comuni, parole buttate là senza avere l’idea di cosa si sta parlando, come e perché. Ultimamente sono intollerante verso i luoghi comuni, soffro di  idiosincrasia acuta verso le polemiche sterili, le critiche ingiuste  e le persone che parlano tanto per il gusto di aprire la bocca.

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Ebbene sì, ancora Milano. Ma a parte il cuore di Milano e il mio che batterà – per sempre – per e con Milano nel senso che Milano non può uscire da lì nemmeno se io volessi. A  parte questo:

Oggettivamente:
MILANO ha una rete di trasporto pubblico invidiabile. Sfido chiunque dovesse tratteggiare un percorso da un luogo ad un altro, trovare un tratto che comprenda più di 200/300? metri a piedi.

just in case: http://www.atm-mi.it/it/Pagine/default.aspx

Tre linee di metropolitana,  saranno cinque nel 2015, data in cui saranno completati i lavori di ulteriori due linee. Passante ferroviario: http://www.msrmilano.com/passante_ferr.htm.

Praticamente non esiste (e meno esisterà) periferia che non sia raggiunta dalla metropolitana con tanto di parcheggi auto e terminal bus. Anzi non esisteranno periferie, parlando in termini di velocità di trasferimento.

Non manca di certo l’attenzione per chi ama la bici: ci sono le biciclette comunali prelevabili dalle moltissime stazioni sparse per tutta la città. (controluce del 02.07.2011).

https://lucecontroluce.wordpress.com/2011/07/02/colora-mi/

Ambiente? I bus a gasolio stanno per essere sostituiti. La circonvallazione interna, per esempio, servita dalla “94”, usa già alcuni bus elettrici. 

Né manca l’attenzione per i ragazzi che nel fine settimana si muovono dopo le ore di fine servizio dei mezzi pubblici. Si può evitare il taxi? Certamente! Si può eccome!
La Città di Milano offre un servizio  “bus by night” attivo tutti i venerdì notte e i sabato notte, al costo di un euro. Sono nove, i punti di raccolta, dislocati nelle aree più frequentati dai giovani nelle ore notturne.

http://www.milanofree.it/milano/trasporti/bus_by_night_a_milano.html

E per gli altri? Donne in giro di notte per esempio?
Esiste “Radio Bus” un servizio notturno di bus a chiamata, praticamente un taxi. Attivo tutti i giorni, dalle 20 alle 2.00 ti viene a prendere dove ti trovi e ti porta a casa. Costo: due euro per il biglietto acquistato nelle rivendite, euro 2,50 se il biglietto lo acquisti sulla vettura.

http://www.atm-mi.it/it/ViaggiaConNoi/Radiobus/Pagine/Radiobus_.aspx

Cara signora viaggiatrice comasca in quel di Milano (spero occasionalmente, sennò sarebbe grave) è proprio sicura che suo marito usa l’auto perché i mezzi a Milano fanno schifo? Io probabilmente non indagherei, per mia forma mentale . Ma lei forse sì…. 

Ad maiora!

VERGOGNE NOSTRANE

Allora:  se andate dallo specialista o dal dentista e vi propone lo sconto, purchè senza la “ricevuta”, accettate (consiglio da italiano medio ma anche da italiano disperato).  Spiego? Ok , spiego. Diminuisce  la detrazione e aumenta la franchigia. Insomma  il povero cristo che fa il suo bravo 730 potrà detarre sempre meno dalle tasse. Questa è la geniale trovata (una delle tante) di quella massa di imbecilli bastardi che ci governa. Risultato? bè è molto semplice: aumenta il nero (e conto in banca  – svizzera – ) della classe medica specialmente. Capito come si combatte la crisi?  Riducendo le detrazioni fiscali. E’ così facile!

ps: nei commenti sono ammesse parolacce. Tutte. 

TANGHI E LAGHI

ma guardando una immagine come questa, non vi viene in mente un lago?  (o il mare, ma in questo momento io chissà perché penso al lago). Autunno, spiaggia deserta. Spiaggia minuscola, di ghiaino e l’odore del lago. Le note di Piazzolla (concordo, Roberta),  Libertango… Escualo. Per esempio. Dolce-forte. Fortissima.  Strumenti che si pucciano nel lago di autunno, insieme al sole. Immagine dolce, morbidissima, sensualissima e calda. Come le note. Come la notte. Oltre la finestra della minuscolissima pensione che si affaccia sulla minuscolissima spiaggia di ghiaino, con le persiane di legno verde scuro, i muri esterni strullati, color rosa antico, l’interno è di lenzuola fresche che odorano di sapone,  stirati di fresco.

E … Libertango…

 

Immagine: Frost. Grazie!  http://robertaenne.wordpress.com/


 

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CAMBIA-MENTI

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Ci sono eventi, situazioni, stupori, delusioni, dolori che ci cambiano.

Non accade repentinamente ma nemmeno troppo lentamente, però accade profondamente e in modo significativo, intimo, incisivo. Forse definitivo.

Certe tempeste infuriano nel cuore e nella memoria: soffia un tale vento che disordina, stravolge e a volte disperde. Convinzioni, ideali, credo, fede. Crollano fiducia, stima, qualsiasi motivo di condivisione. E il passato, con i suoi slanci  diventa motivo di pentimento, il presente in qualche modo ricattabile, gli errori molto poco riparabili.

E capita che guardi le persone con lo stesso vetro nel mezzo, però  più trasparente, più nitido.  Come se passata la pasta levigante sul cristallino, vedi meno opaco.

E ti domandi chi sono le persone che hai davanti, dove sono gli occhi che un giorno ti hanno dato ristoro, sorriso, pace. Dove?

È che viviamo di illusioni, di costruzioni, di paure, di convinzioni che il nostro mondo contiene tutte le rassicurazioni di cui abbiamo bisogno, edulcoriamo le cose finché queste finiscono per somigliare all’oggetto dei nostri sogni. Ci innamoriamo di scatole che riempiamo di illusioni, di attenuanti, di concessioni, di perdoni, elargiamo possibilità e assoluzioni.  Prendiamo per mano superficialità e le trasformiamo in profondità. E ci crediamo, ci tuffiamo dentro con tutte le scarpe. Bella caduta!! Inconsapevolmente cadiamo in basso credendo di elevarci. Crediamo di vedere le stelle invece sono lampadine dismesse degli alberi di Natale dell’anno prima. Beviamo parole, e parole e parole trovandoci dentro sapienza e saggezza invece c’è solo presunzione e arroganza. E il misero tentativo di colpire, stupire, impressionare.

Ma poi il dolore quando è forte fa crollare tutto il castello di carta, gli occhiali dalle lenti colorate cadono miseramente e si infrangono e la realtà ci acceca quasi. Ma dopo passa. Si va avanti e magari per cento miraggi di oasi nei deserti sui nostri cammini, ne troviamo qualcuna che ci piace per com’è, e per com’è l’amiamo. Si sta male, quando crollano i miti, fanno un casino bestiale, un rumore nei giorni che rimbomba nella testa. Cadiamo anche sopra le macerie di una storia d’amore, di una amicizia, o sopra cioè che siamo,  ma poi quando rialziamo la testa, insieme ai dolori delle ossa e del cuore, in mezzo ai lividi, e tra le fessure degli occhi pesti, vediamo più chiaro. Certe volte le botte fanno bene, cadere può essere una fortuna, una opportunità. In alcuni casi la caduta e la botta sul testone è salvifica.

“Ciò che non uccide rende più forti” scrisse Nietzsche, e sebbene non mi sia particolarmente simpatico, in questo sono d’accordo con lui. Lo insegna la vita, lo insegna il dolore, soprattutto. E sempre cadendo si impara anche a voler sempre più bene a sé, ad essere più indipendenti,  a distinguere la plastica dal vero, che cerca di vivere respirando più cielo e meno gas di strada, che si veste poco ma di lino e cotone. Mai di lustrini e lamé.

INCONTRI

 

 

Sabato mattina. Un bosco fuori Roma,  Pieffe ed io. Bastone in mano, passo lento ma costante, silenzio. Solo la canzoncina lieve e per me assolutamente incomprensibile sussurrata dalla voce di Pieffe. Nessun altro essere umano. Solo io e poi Pieffe, con le sue orecchiette vibranti, pronte a captare rumori.  Ad un certo punto si blocca, mi guarda, sorride e sussurra: ci sono! Qui ci sono, li sento! Io mi guardo attorno, guardo tra le foglie .. Niente. Lui mi fa un segno appena percettibile con l’orecchietta destra, io traccio una linea immaginaria tra la punta di questa e il terreno e … lo vedo. Uno gnomo!!! Lui afferra il suo telefonino, infatti la foto è parecchio sgranata. Non aveva altro disponibile al momento…

 http://www.flickr.com/photos/ric-or-di/7993412335/in/photostream

FOLLETTI

Tempo fa trovai in rete questa cosa. Mi era piaciuta e questa sera l’ho voluta rileggere per cui l’ho cercata, nel mare della rete.  La pubblico perché credo ai folletti. I miei folletti mi hanno raccontato tante cose, mi hanno avvisata tante volte con le loro vocini insistenti e non sempre e solo per fare dispetti. Anzi ….

AEtokv9

Folletti

di Giulio Obici

I folletti non popolano soltanto le favole, spiritelli fugaci e erranti nell’aria. Talora prendono corpo tra di noi, quaggiù, per materializzarsi in un disegno sul muro, in un simbolo, in una frase, in un racconto, perfino in una persona, ogni volta forieri di un colpo di scena o di felicità, di un rimorso o di una fitta al cuore, di un invito a sorridere oppure a meditare. Non sempre ce ne accorgiamo. Anzi, molto spesso sfuggono ai nostri occhi: discreti, sovente enigmatici, frequentano le nostre strade non per essere visti, ma per essere scoperti. La loro esistenza dipende dunque da noi, dal nostro sguardo. E se siamo lesti ad afferrarli, allora scopriamo che, in fondo, altro non sono che una proiezione dei nostri pensieri: un folletto può essere visto da un passante e non da un altro. Ma quando finiscono dentro la macchina fotografica e poi inquadrati in un’immagine, tutti noi li riconosciamo per quello che sono: apparizioni improvvise in cui si condensa un po’ della nostra vita. La vita personale, sociale e perfino politica. Comunque, con i folletti delle favole hanno un tratto in comune: sono quasi sempre transitori. Un giorno ne vidi uno tracciato su un muro, ma l’indomani non c’era più.

Sono rari i casi in cui un folletto sopravviva al tempo e alle sue ingiurie. Quando accade, l’apparizione viene da lontano, carica di memorie e di ammonimenti, ma non è detto che sia un retaggio nobile del passato, può trattarsi di un’umile insegna stradale, magari consunta ma ancora eloquente, come quell’omino sbarrato dalla riga rossa del divieto di transito che oggi sorveglia il nulla e una volta segnalava un’agricoltura fertile, rigogliosa, protetta, poi travolta dal calpestio della grande fuga verso la città.

Nella città, l’apparizione può essere un fulmineo bagliore che illumina il frettoloso grigiore della strada. Un giorno, mi appostai in un vicolo nel cuore della grande metropoli, attirato da quell’ombra cupa che lo divideva a metà e stranamente ne faceva un luogo magico, separato come mi parve dal pur vicinissimo fragore urbano. In attesa che vi accadesse qualcosa capace di dare una misura alla magia, mi dicevo: apparisse un bambino… E, miracolo, il bambino apparve sbucando con il suo pallone dal nero dell’ombra, folletto di luce, apparizione di speranza, riparazione al rimorso di vecchi e nuovi calpestii.

Ma di regola, nella grande città, i folletti popolano i muri, immagini fisse collocatevi da una mano distratta e comunque ignara che poi, tra di loro, nasceranno dialoghi impertinenti o divinatorie congiure. Nel grande manifesto pubblicitario issato nel 1994, quel trampoliere dalle lunghe braghe bianche e quel moderno pagliaccio che vi si aggrappava ilare e succube sarebbero rimasti muti se un altro folletto non si fosse intromesso, per dialogare con loro, nel vicino tabellone elettorale che annunciava l’evento del secolo, la strepitosa discesa in campo del futuro. È così che nel mio obbiettivo sono finiti, insieme, la politica e i trampoli, il domani e l’incerto incedere del clown, il sorriso di carta e la malinconia del circo. Forse anche Cassandra era un folletto.
Un altro giorno, chinando gli occhi sull’acciotolato di una strada ho visto il coperchio di un tombino su cui erano ben conservati la scritta “Fognatura” e, accanto, un fascio del lontano ventennio, e allora mi sono convinto che i folletti, oltre che alla metafora, ricorrono all’ironia per scuotere, quando occorra, la nostra pigra coscienza.

E pensare che folletto deriva da folle perché ne è il diminutivo. Credo che l’etimologia di una parola non rispecchi sempre i significati che essa col tempo è venuta assumendo. È ben vero che i folletti, o almeno i miei folletti, hanno un che di stravagante, d’irrequieto o di iperbolico, insomma un tocco di follia, ma è quella follia lucida e consapevole con cui l’apparizione riesce a scardinare la normalità per diventare rivelazione. Tuttavia, almeno una volta, ho incontrato un folletto etimologicamente ortodosso. Posso dire infatti di avere fotografato la follia: non nei luoghi deputati, dove è facile raccoglierne le sembianze nei volti sempre uguali di quegli sventurati, ma sotto il cielo che ci sovrasta tutti. Accadde quel giorno caliginoso in cui vidi un omino camminare ossessivamente, calpestandoli più e più volte, lungo i giri concentrici lasciati sulla spiaggia da quattro robuste ruote, e poi allontanarsene appena intuì che la macchina fotografica l’avrebbe trasformato da folle in folletto. Il folletto, anche per assonanza, mi rimanda piuttosto alla favola. E debbo confessare che perfino i miei folletti, quelli che inseguo quaggiù, spesso mi sembrano sul punto di spiccare il volo per raggiungere l’etereo mondo da cui etimologicamente derivano. È come se ci fossero dati in prestito da una transitoria fata consolatrice che li dispensa tra di noi per indurci al sorriso e poi, prima di involarsi, li richiama impietosamente a sé. Sono questi i folletti burloni, ilari, grotteschi o ironicamente disperati che ti si parano davanti quando meno te l’aspetti, con un messaggio ma più spesso con uno sberleffo.

Per esempio, quella piccola figura extraterrestre (porta sul petto il numero 130, dunque è una delle tante) che vigila con grandi occhi stupiti su un telefono distrutto dal solito, ma non meno misterioso, vandalo. O le matite giganti che sembrano destinate a scrivere in grande e invece finiranno tagliate nella stufa a legna di tanta letteratura. O la stella a cinque punte che, disegnata sul muro, tramonta su un mucchietto di spazzatura messo là dall’ironia della fata. O la bottiglietta di birra che dal podio ti apre lo sguardo su un’ordinata platea di seggiole, parabola impietosa di un atteso Godot che non parlerà mai. O i due minuscoli manichini nudi che in una vetrinetta fanno l’amore sotto gli occhi indifferenti di un terzo piccolo manichino vestito di tutto punto, geniale miniatura, con tanto di prezzi, del grande sexy-shop mediatico che sta consumando anche le ultime briciole della seduzione.

Oppure, infine, quell’enorme scritta che ho visto tracciata a grandi lettere all’imbocco di una galleria e che suonava così: “Ti porterò nella mia testa vuota”, stravagante confessione di un dramma privato, anonimo in tutto, ma vistosamente spiattellato in pubblico come la scia di polvere sollevata da una tumultuosa partenza.

Una volta, è sembrato anche a me di essere sul punto di volare lassù, nel regno delle favole, assieme al folletto che la mia macchina aveva preso di mira. C’è da qualche parte un castello medioevale che spunta con le sue mura merlate dal cucuzzolo di un colle solitario. Un’immagine, già solo per questo, da favola. La stavo osservando nel mirino quando, improvvisamente, una piccola bambina a cavallo di una minuscola bicicletta attraversò seriosa, quasi indaffarata, l’intero specchio dell’inquadratura. Il clic della macchina fotografica dev’essere scattato da solo, mentre io mi dicevo in preda allo stupore: sì, sono entrato in una favola. Un attimo dopo, abbassai l’apparecchio e mi guardai intorno, ma la bambina non c’era più: mi domando ancora da dove fosse sbucata e dove, scomparendo, fosse finita. Forse, lassù.

Giulio Obici

Giulio Obici, maggio 2003

Il testo è pubblicato in Folletti. Fotografie di Giulio Obici, Galleria dell’Incisione, catalogo della mostra, Brescia 2003

trovato qui: http://www.incisione.com/apparati/obici_folletti.html

qualcosa su Giulio Obici: http://www.incisione.com/opere/bio.php?cognome=obici

OMAGGIO

Ehi, si, sono proprio io, la Matilda di SirBiss e Silvia. Dal giorno in cui ho avuto l’onore di essere pubblicata tra i gatti sapienti, sono cresciuta, vero?
Ora sono qui che riposo, tra l’erbetta. L’erbetta qui è … di casa. Non potete sapere quanto! Altro che l’erba di Grace!!! Qui non si scherza mica. Erbette e giardini e orti mi circondano. La mia famiglia, quella umana, intendo, mi ha lasciata sola, hanno preso il traghetto, i traditori, e se ne sono andati, lasciandomi a fare la guardia. Io ho cercato di spiegar loro che non sono un cane ma una gattina … Macché! Comunque nel caso, miagolerò. Qualcuno arriverà. Magari con un’astronave, tutina da marziano, a salvare me e la casa, lucertole e tartaruga. Eh si, qui c’è anche Gigia, la tartaruga, che a memoria del padrone di casa, ha più di mezzo secolo. Ora vi saluto, torno a sonnecchiare. Vi lascio una cosa scritte qui sotto, da un illustrissimo scrittore, si chiama Borges. Ecco, lui sì che aveva capito tutto di noi felini. Ma anche molto degli umani, e anche oltre ….

Miaooooooooooooooooooo

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Matilda tra l’erbetta. Foto di Silvia, grazie Sissi.

Non sono più silenziosi gli specchi
nè più furtiva l’alba avventuriera;
sei, sotto la luna, quella pantera
cha a noi ci è dato percepire da lontano.
Per opera indecifrabile di un decreto
divino, ti cerchiamo invano;
più remoto del Gange e del Ponente,
tua è la solitudine, tuo il segreto.
La tua schiena accondiscende la carezza
lenta della mia mano. Hai accolto,
da quella eternità che è già oblio,
l’amore di una mano timorosa.
Sei in un altro tempo. Sei il padrone
di un abito chiuso come un sogno.

J.L.BORGES

EGGIÀ

Foto da web


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La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia”. 

F.W. Nietzsche, Umano, troppo umano, I Adelphi, Milano 1972, pp. 123-124

STANOTTE

foto dal web

C’è una luna giallo oro, il colore ricorda i lunghi vestiti delle donne indiane. Seta per la sera, in un cielo perlato. Gli abeti, i tigli, l’araucaria, sono ombre antiche, imponenti, altissime: contrastano con il cielo per via della luce lunare. Sono davvero grandi questi alberi, e mentre li guardo, penso che la stessa luna illumina, da qualche parte, sassolini colorati sul bagnasciuga, al mare, così come un vicolo di pietra rendendolo lucido e dorato, come un fiume in una fiaba. Penetra,  nella stanza, tra i listelli di persiane chiuse e cola sopra la pelle di due amanti mentre si scambiano baci e respiri. Lucida quella linea di mare che diventa platino e si solleva, obbediente a quella rotondità potente e silenziosa. Si sovrappongono passi e pensieri, pensieri e passi, mentre gli alberi, giganteschi, parlano una lingua che non è lamento, non è canto.  L’erba del giardino è bagnata, raffredda i miei piedi nudi ma non i pensieri. Guardo il cielo, la cima degli alberi e la luna e affido lassù qualche domanda, una preghiera, una speranza, un segreto. Un brivido cammina lungo la schiena, fa un po’ freddo, o forse no. Forse è altro.  Il cielo adesso non è più di perla ma ottanio, e sembra quasi finto. È la luna di tutti, di quelli ricchi e dei senzatetto che dormono nei giardini, sulle panchine, sotto i portici in città, penso. È la stessa luna che può essere vista da un uomo e da una donna, luce irradiante per tutti, è la luna dei lupi. Luna che ammalia, ammonisce, chiama, indica la via, determina i ritmi delle donne, la crescita, e rende buono o aceto il vino.  Si svuota,  la mente, e i pensieri si riversano sul prato. Sotto questa luce li posso vedere, come se non fossero miei.  Li lascio li, qualcuno è un seme, chissà se potrà attecchire. Sotto questa luna.

SENZA TITOLO

Dal libro: Acid Lethal Fast, di Astor Amanti

Esistono uomini che portano su di sé il dolore del mondo.
Quando vedono pesci rossi nei sacchetti dei Luna Park non riescono più a respirare e vedono orribili facce ridenti deformate dall’acqua. Uomini che guardano foto di esseri viventi maltrattati e ne sentono, in maniera accecante e assordante, le urla, il panico, …la sofferenza.  C’è chi li considera santi o fanatici e chi, semplicemente, afferma che sono persone troppo buone per riuscire a sopravvivere senza impazzire.

Per chi ha un cuore capace di somigliare anche solo un po’ al cuore di un animale.

E poi per Ulisse, per Beba, per Atum, per Asso, per Giada, per Chicca, per Vienna, per Ambra, per Kira, per Paco, Pepe, Ful e per tutte le zampe, le piume, le pinne, le pellicce, gli zoccoli, i becchi, le ali del mondo.

CELESTE MI

foto mia
Foto mia.. E poi dicono che a Milano il cielo non è mai celeste …

Svegliata dalla sveglia alle 6.30 di oggi, sabato mattina perché ci sono cose da fare (sono milanese, nessuno è perfetto..) ho visto su la7 un pezzo di Le invasioni Barbariche, ospite Enrico Bertolino, così ho conosciuto il suo libro, Pirla con me, Mondadori. È una caricatura di Milano, dei milanesi, di ciò che Milano era, di cioè che Milano è. Sottotitolo: da Milano si può guarire. Penso che lo leggerò. Immagino un libro divertente e triste, come fanno le caricature tutte: un cono di luce bianca e impietosa sopra difetti, miserie, dolori e nostalgie. Mi sono sdraiata di nuovo sul letto e gustata l’ultima parte (in rete ho trovato l’intervista completa) e mentre ascoltavo ho pensato che io non vorrei mai de-milanesizzarmi, non ci penso nemmeno. Provo perfino nostalgia per quella Milano della quale Enrico Bertolino, praticamente mio coetaneo, conserva dei ricordi in seppia. Quando al Bar Magenta c’erano i biliardi (ora sono rimaste solo le stecche e i contapunti, sono contenta che ci siano). Quando sulle ringhiere dei Navigli c’erano i panni stesi e non gli atelier e i teatri di posa più prestigioni della città. Non vivo in città, prima per scelta dei miei genitori, poi per scelta personale, per ragioni che ora qui non sono importanti ma che si possono sistetizzare così:  vivo in una casa con giardino  fiori prato e cani e ora anche orto,  ma se non avessi avuto queste esigenze, l’appartamento in condominio di certo lo avrei scelto a Milano. A Milano ci lavoro,  e di fatto ci vivo da che avevo 15 anni. E per me, vale la pena del viaggio. Che viaggio poi non è. Quaranta minuti sono spesso normali se non poca cosa per molti che pure vivono e lavorano in città. Milano è ottimamente servita dai mezzi pubblici, ha una rete di trasporti meravigliosamente efficiente ma è .. grande. Grande, in tutti i sensi. 🙂 E no, io di Milano non voglio guarire. Anzi, mi spiace di non essermi ammalata (non ero nata) quando ammalarsi di Milano era un privilegio, era costruire, era ammalarsi di cuore. Un bell’ammalarsi di cuore, quello.

Vivere fuori (però fuori per davvero e non nella periferia – la precisazione è fondamentale) è un buon compromesso per quelle che sono le mie esigenze. Ho bisogno di Milano, ma ho bisogno anche di altro. Così Milano, la sera e nei fine settimana è sotto i miei piedi, solo un pochino più a sud, raggiungibile in pochissimo tempo e rassicurante, con la sua Madonnina e tutte quante le sue contraddizioni e le sue spine, pungenti tanto quanto le guglie del suo duomo.

In fondo a questo video (verso la fine, si può far scorrere il cursore) c’è una bella cosa, che non c’entra nulla con Milano. Alla domanda: cosa conta di più nella vita, c’è una risposta interessate, attraverso un … vasetto di maionese.

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Navigli a Natale
Foto di Pierangelo Mariani- Grazie Pier, spero di rivederti presto.
P.Mariani

e da http://www.milanmilan.it

“Preghiera disperata” alla Madonnina del Duomo

©Ada Lauzi

L’è ‘na preghiera fada in milanes con umiltà, fervor, senza pretes: te preghi madonnina, per on’ora fa ritornà Milan ‘me l’era allora… e, per quell’ora, famm vedè i navilli, i bei tosann coi sòcch fin’ai cavilli, i “Gigi” con la gnaccia e intorna i fioeu e sentì anmò el cantà di barchiroeu, el vosattà di dònn in sul Verzee e quell del Vicolin di lavandee! O Madonnina, famm ‘sta carità. per on’oretta sola famm tornà ne la Milan di brumm e di cavai quand sòtta Tì giugavom num bagaj, e Te parevet alta in Paradis coi gulli intorna, bianch come benis, famm rivedè ‘ncamò i spazzacamin con tutta la carisna sul faccin… …el soo…l’è ‘na preghiera disperada… d’on coeur che ne pò pù de sta bugada… ma…quand de damm a trà Te avree decis… famm sarà i oeucc…e derva el Paradis.

SENZA PAROLE

Io l’ho definita .. triste. Triste. Perchè davvero non ci sono parole. Davvero. Restaurare un’opera, per me, significa comunque rendere parzialmente posticcio qualcosa. Meglio non perfettamente conservato che posticcio. Ma questa è la mia opinione, un po’ estrema forse. Ma è così che la penso. Ma leggete un po’ l’articolo. Oltre ogni limite, oltre ogni decenza, oltre… tutto. Qualcuno si incazza, qualcuno prova un colpo al cuore. Qualcuno prova  indifferenza,  perchè ci si anestetizza anche un po’ per le miserie che ci tocca vedere di questo nostro Paese.  Martellate, nel cuore e nell’orgoglio, sfregi, come sugli affreschi di Giotto. Uguale uguale. Cosa dire? Cosa?

Povera Italia!!!

http://www.repubblica.it/persone/2012/07/25/foto/assisi_patti_smith_restaura_giotto-39691150/1/?ref=HRESS-22

FIRMA DEL VENTO

Foto mia

Ho giocato le mie carte tra le piante di rosmarino e la spazzatura

con i pugni nel ventre della sera

In piedi ma con l’ombra sempre in ginocchio

ho portato in giro il mio cuore come un secchio tutto pieno di buchi

come si porta in giro un cane di notte

non per passione ma perché sennò sporca il tappeto

E qualche volta sono andato a raccogliere fiori

per fare piacere a una donna, per farle almeno pena

E qualche volta sono andato a raccogliere fiori

per fare un dispetto al prato, se lei non ti guarda

Ma la Breva firma i cipressi

e soffia via la polvere di quello che volevo essere

perché il tempo è un coniglio che scappa

ma è anche il cane che gli corre dietro

E vado avanti a spingere la mia biglia finché

finché c’è terra lei vuole rotolare

Con un plettro e una pastiglia, la mia biglia in tasca, la porterò a casa

E ho aspettato i marziani con la tuta tutta colorata

i fantasmi in mezzo ai prati dell’autostrada

e non ho capito che qualcuno aspettava me

più agitata della coda che ho staccato a una lucertola

con gli occhi chiusi e la patta aperta

per disegnare l’amore perfetto sul soffitto

E qualche volta sono andato a raccogliere fiori

per strappare loro i colori, per dire “m’ama non m’ama”

e qualche volta sono andato a raccogliere fiori

per dirottare il loro profumo là, dove c’era solo merda

ma la Breva firma i cipressi

e soffia via la polvere che volevo essere

perché il tempo è un coniglio che scappa

ma è anche il cane che gli corre dietro

E vado avanti a spingere la mia biglia perché

finché c’è terra lei vuole rotolare

Con un plettro e una pastiglia, la mia biglia in tasca, la porterò a casa

E adesso sono qui a guardare i passi in mezzo al prato

insieme ai fiori che stavolta non ho strappato

e nel vento, mi piace guardarli ballare

(Davide Van de Sfroos, Long John Xanax da Yanex)

(Traduzione mia)

Foto mia

IL MIO ALBERO

A volte serve un Albero. No, non sto pensando al riparo dal sole, alla frescura, al riposo, alla vacanza. Oggi vanno di moda le vacanze naturali, fa tanto new age, fa tanto fico andare a castagne, fare   “birdwatching”, affittare casette stile “La casa nella prateria”, coltivare pomodori, erbette e fragole. Salvo poi distruggere i boschi. Avete mai visto i funghi martoriati dai bastoni dei coglioni che invadono i boschi perché fa tanto “viviamo naturale”? Ecco. Chiusa parentesi, torno all’Albero.

L’Albero per me, a volte è il simbolo del posto dove potersi sentire. Poter sentire sé, poter parlare di sé a chi si ama, poter essere sé. Lontani da ogni teatrino, da ogni rumore, dalle giustificazioni tutte, dalle bugie tutte. Lontani dalle finzioni. Per quanto è possibile.

Nella fotografia c’è un albero, bellissimo, maestoso. Un essere di legno e frasche, vivente, splendido. E’ invitante, accogliente. Ha persino un pavimento attorno alla base del suo tronco, due panchine. Ti aspetti che da un momento all’altro arrivi un cameriere a domandare “cosa desidera?”. Bello, tutti gli alberi, per me sono belli, come sono belli tutti i cani. Per me.

L’altro giorno qualcuno,  tagliando la siepe, mi ha confessato che mentalmente chiede scusa mentre lo fa.  Gli credo, lo farei anche io. Non amo i fiori recisi, anche se mi piacciono tantissimo i mazzi enormi di margherite sul tavolo della mia casa.  Mentre scrivo questo, sono consapevole delle contraddizioni della vita, e di tutto cio’ che noi “usiamo”, e comprendo anche me, ovvio.

L’Albero della fotografia, dicevo,  è splendido… ma c’è qualcosa di troppo ovvero le panchine, il pavimento, insomma le costruzioni. Sono fatti bene, panchina e pavimento, in legno (grazie!!!). Se fossero state in ferro o in plastica probabilmente avrei indagato sul luogo e scritto al Comune… Dicevo: c’è qualcosa di troppo.  Il “mio” Albero non deve chiamarmi, non deve mostrarmi di essere accogliente, non deve aprirmi la porta di casa, e chiedermi “prego accomodati” mostrandomi le panchine che stanno sotto le sue fronde. Deve farlo con altro…. Devo sentire che è quello il “mio Albero”. Perchè un amico non vale un altro. Un Albero non vale un altro. Un amore non vale un altro.

Il mio Albero deve poter ascoltare il mio cuore, le cose di dentro, raccogliere le mie lacrime e le mie risate. Ascoltare le mie storie, i miei sogni, le mie paure, le mie fobie. Sciogliere le mie catene.  Devo fidarmi di lui, devo essere sicura che ogni cosa che lui ascolterà sarà per sempre soltanto racchiusa tra i solchi del suo tronco, intrecciata tra i suoi rami, per sempre.  E deve essere soltanto li, per me. Quelle panchine non sono “per me” ma per chiunque vi passi. Sono un invito alla sosta, l’offerta di un rinfresco. Bello, tutto molto bello e va tutto bene. Ma il “mio” Albero non può essere questo.

EASY

 

Voglio un tappeto volante che mi porti distante

Dal frastuono del mondo

Dall’indifferenza e dal dover portare pazienza.

Dal tempo che stringe che incalza che stanca

Un tappeto volante che scivola nel cielo passando a volte sotto l’arcobaleno

E quando è notte si deve fermare, tra stelle amiche, tra stelle sorelle.

Tra quelle sognate, osservate e perdute.

Tra quelle che han raccolto pensieri e parole, dolori e gioie.

Voglio un tappeto che mi porti da te,

per raccontarti tante cose di me, ascoltarne altrettante da te:

favole e storie, e cose banali,

e  poi volare e ridere come se questo fosse normale.

 

TURNO DI NOTTE

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Quando si è bambini si pensa che le cose, gli oggetti, intendo, siano animati. Io lo penso ancora adesso. Può sembrare sciocco, ma a volte, fissando una statua, penso chissà se avrà freddo oppure caldo, oppure come farà a stare anni e anni immobile. Non mi piacciono le statue nei giardini: tuttavia ne ho una, per una ragione affettiva.  Era un regalo a mio padre, molti anni fa. All’epoca lui voleva costruire un piccolo stagnetto, nel suo giardino, con i pesciolini rossi, cosa che poi non fece.  Il mio compagno gli regalò quella piccola statua/fontana che attraverso un tubo avrebbe versato acqua dalla brocca allo stagnetto, progettato ma mai realizzato. La chiamiamo Signora Frisbee perché si presta ad accogliere il disco di plastica colorata quando capita che si gioca in giardino.  Piove, stavo guardando dalla finestra, poco fa. L’odore è buono, sa di erba matura, odore di estate. La Signora Frisbee, pensavo, si sarà rinfrescata, se non altro.  Per me altri alcuni oggetti, più di altri hanno un anima: vecchi pezzi di ferro, per esempio vecchie chiavi che hanno aperto chissà quali porte.  Possiedo un numero di chiavi vecchie, ora qualcuno sta restituendo loro una specie di nuovo corpo, pulito dalla ruggine, il virus che le mangerebbe. Non so cosa ne farò, ma penso a  chissà quali porte avranno aperto e chiuso nel corso degli anni, quali intimità avranno custodito, protetto,  quali miserie avranno nascosto le stanze affidate alle porte sottomesse ai giri di  quelle chiavi. In quali tasche e borse saranno state, e quali odori e rumori si sono fissati tra i piccoli difetti della forgiatura, tra i riccioli del ferro battuto. Non conosco la storia di quelle chiavi e non la vorrei conoscere: ognuno mantiene i propri segreti. Lo fanno le persone, lo fanno le cose. Rifletto spesso sulle cose gravi e grevi della vita, quelle che toccano le corde più profonde del cuore, che condizionano tanto la nostra esistenza e anche quella di chi mescola la propria vita con la nostra. Abbiamo anima e cuore, sangue, dolori e segreti, ricordi, speranze e paure. Paure che si accovacciano nei passi, eppure ci seguono, si nascondono tra le rughe, tra le pieghe delle nostre lenzuola, dei nostri vestiti, della pelle, tra un pelo e l’altro. Rifletto sull’effimero, che sbalordisce, violenta, svuota.  A volte occorre fermarsi, fermare i pensieri, spegnere la testa e lasciare che il cuore la pelle i sensi arrivino laddove non arriva la testa, la logica, la geometria delle cose. E penso che il ritmo della vita, rassicurante delle stagioni che si susseguono, ‘alternarsi del giorno e della notte, siano un po’ come la musica del tempo,. Tempo che ruba, che sottrae, che scalda e che gela, che dona la vita e reca la morte, che rispetta il meraviglioso eppure terribile ciclo di vita-morte-vita. Penso a frammenti di cose lette oggi, la particella di Dio,  il fatto che tutto ciò che è visibile sarebbe pari solo al 4 percento di ciò che esiste. E come tutti mi chiedo cosa sarà il restante novantasei percento. Quante risposte ci sono là dentro! E che questo quattropercento è piccolo, troppo stretto eppure infinito per essere conosciuto tutto ma anche per essere compreso.   Scrivo a ruota libera emozioni sospese tra i fili delle mie paure, delusioni, speranze, amarezze sconfitte e dolori della mia vita. In questa ragnatela c’è il mio quattropercento, e anche il mio personalissimo restante novantaseipercento che non conosco di me, e che non mi conosce. Tra poco sarà notte fonda e probabilmente vivrò inconsapevolmente dentro il novantasei, multiverso del mio giorno quando vivo nel quattro percento, in un posto che è il quattro percento di tutto. Un quattro percento pieno di visi e di sorrisi, di ricordi, di rimorsi e rimpianti e di speranze.  Con il cuore che si indurisce, con qualche dolore che brucia, con la voglia di capire, di trovare la quadratura delle cose, un conto che torni, e risposte che non si avranno mai. Con la voglia di trovare le persone come credevi che fossero, quando quel loro quattro percento sembra, tutto ad un tratto, straniero e lontano dal mio.  Spesso ci si perde nelle cose banali per non sentire troppo la paura del domani, per trovare la forza di andare avanti e di combattere ancora o di resistere, a seconda dei casi, a seconda del momento. C’è la preghiera, e aiuta. Io prego, a volte, anche se nessuno in particolare.  Non so di cosa siamo fatti, forse siamo fatti di troppe cose, come di troppo poche. Quattro per cento di misteri, novantasei percento di cosa?

SCRITTO4LUGLIO2012DINOTTE


IN-DIFFERENZA

Ciò che è divinamente bello è anche divinamente insensibile. Risorse incalcolabili vengono usate a scopi che non hanno niente a che vedere con l’umanità. Anche se fossimo tutti morti stecchiti, il cielo continuerebbe a sperimentare con i suoi azzurri e le sue tinte dorate. Ma allora guardando qualcosa di più piccolo, di vicino e familiare, troveremo forse una forma di solidarietà.  Prendiamo la rosa. L’abbiamo vista così spesso fiorire nei vasi, così spesso associata alla bellezza in fiore, ci siamo dimenticati di come rimanga dritta, ferma e tranquilla per un intero pomeriggio, piantata nel terreno. Essa mantiene un contegno di estrema dignità e padronanza. I petali sono distribuiti con inimitabile precisione. Forse ora, deliberatamente, uno cade; e adesso tutti i fiori, quelli voluttuosamente purpurei, quelli color crema, nella cui carne cerata il cucchiaio ha lasciato un ricciolo di succo di ciliegia, i gladioli, le dalie, i gigli, sacerdotali ed ecclesiali, i fiori dai colletti cartonati da cerimonia tinti di albicocca e d’ambra, chinano tutti il capo lievemente sotto la brezza – tutti, tranne il pesante girasole, che riconosce con orgoglio il sole a mezzogiorno, e che forse a mezzanotte snobba la luna. Eccoli lì, loro sono le cose più durature, più indipendenti che l’uomo abbia scelto come compagni; sono loro che simboleggiano le sue passioni, che adorano le sue feste, e giacciono (quasi conoscessero anch’ essi il dolore) sui cuscini dei morti.  Paragonandoli meravigliosamente alla nostra vita, i poeti hanno trovato nella natura una religione; c’è gente che vive in campagna per imparare le virtù delle piante. Ed è proprio la loro indifferenza che ci è tanto di conforto.

 Virginia Woolf

Foto Pieffe (grazie)

LE NOTE DI SIMONE


Avevo promesso di pubblicare una cosa scritta da Simone e solo ora ho avuto il permesso. L’attesa era dovuta al fatto che ha partecipato, con la sua classe, ad un concorso e le premiazioni si terranno in settembre.E siccome le poesie sono già state consegnate, ho il benestare di Simone e della sua mamma.

Simone ha 13 anni, studia musica, per ora limitatamente alla chitarra, e ha appena terminato la seconda media.

“ LE SENSAZIONI DELLA MUSICA”

Parlando a Te MUSICA
parlo a me stesso
come un fanciullo che scopre un mondo nuovo
sfogandoti tutto quello che ho dentro.

Posso guardarti
guardandomi allo specchio
sei in ogni mio respiro e in ogni mio ricordo
spegnendo il fuoco dei miei dolori.

Se guardo indietro tra i miei pensieri
ci sei Tu MUSICA
che mi colmi l’anima
dal capo ai piedi.

MUSICA,
mia Dea,
sensazione assoluta,
sempre.

.(

Grazie Simo!
Ziaori

LEGGENDA

LA  LEGGENDA  DELLA  TIGRE  BIANCA

C’  era  una  volta  una  tigre  del  Bengala  , che  aveva  fame  però  non  trovò  da  mangiare .

Andò  su  una  collina  per  vedere   meglio  se  c’erano  degli  animali  !!!

Però  non  c’ erano, allora  andò  in  letargo.  In  una  grotta.

Due  giorno  dopo  uscì  dalla  grotta  e  vide  che  nevicava  e  la  neve  gli  cadde  addosso.

Poi  la  tigre  vide  un  pittore  e  anche  il  pittore  vide  la  tigre  ,  e  visto  che  era  tutta  bianca le dipinse  con  il  pennello delle  strisce  nere.

Così la chiamarono “La  tigre  delle  nevi”.

Dopo  un  po’  il  pittore  dipinse  di  bianco  un’altra tigre e  le  dipinse  anche  le  strisce  nere .

Così  il  maschio  e  la  femmina  si  accoppiarono.

Dopo  un  mese  il  pittore  ritornò  e  vide  che  avevano  fatto  dei  cuccioli  bianchi  con  le  strisce  nere.

Leggenda  scritta da  Aurora, 8   anni.

16062012

Non mi interessa cosa fai per vivere. Voglio sapere per cosa sospiri e se rischi tutto per trovare i sogni del tuo cuore. Non mi interessa quanti anni hai. Voglio sapere se ancora vuoi rischiare di sembrare stupido per amore, per i sogni, per l’avventura di essere vivo. Non voglio sapere quali pianeti minacciano la tua luna. Voglio sapere se hai toccato il centro del tuo dolore, se sei rimasto aperto dopo i tradimenti della vita, o se ti sei rinchiuso per paura del dolore futuro. Voglio sapere se puoi sederti con il dolore, il mio o il tuo, se puoi ballare pazzamente e lasciarti andare all’estasi che ti riempie fino alla punta delle dita senza prevenirti di cautela, di essere realista, o di ricordarti le limitazioni degli esseri umani. Non voglio sapere se la storia che mi stai raccontando sia vera. Voglio sapere se sei capace di deludere un altro per essere autentico a te stesso, se puoi subire l’accusa di un tradimento e non tradire la tua anima. Voglio sapere se sei fedele, e quindi di fiducia. Voglio sapere se sai vedere la bellezza anche quando non è bella tutti i giorni, se sei capace di far sorgere la vita con la tua sola presenza. Voglio sapere se puoi vivere con il tuo fracasso, tuo o mio, e continuare a gridare all’argento di una luna piena. Non mi interessa sapere dove abiti o quanti soldi hai. Mi interessa sapere se ti puoi alzare dopo una notte di dolore, triste e spaccato in due, e fare quel che si deve per i bambini. Non mi interessa chi sei, o come hai fatto per arrivare fin qui. Voglio sapere se sapresti restare in mezzo al fuoco, con me, e non retrocedere. Non voglio sapere cosa hai studiato, o con chi o dove. Voglio sapere cosa ti sostiene dentro, quando tutto il resto di te non l’ha fatto. Voglio sapere se sai stare da solo con te stesso, e se veramente ti piace la compagnia che hai nei momenti più vuoti.”

attribuito ad una indiana, tribù degli Oriah 1890

C’ERA UNA VOLTA

C’era una volta un Cuore che non voleva saperne di scendere a patti con la Testa. Eppure -diceva la Testa-  siamo due parti dello spesso corpo, siamo stati creati per viver e insieme nello stesso condominio, ma per quale ragione non possiamo parlarci, raggiungere accordi, o almeno convivere civilmente? Macchè! Ad ogni assemblea degli Organi, Cuore e Testa riuscivano a malapena a sopportarsi a vicenda.  Quando andava bene, perché quando andava per la peggiore, il Cuore, o la Testa, a seconda dei casi, ne uscivano pesti. Di solito a pagare maggiormente, manco a dirlo, era il Cuore, si sa. Nelle assemblee degli Organi, il Cuore era sempre quello più canzonato. C’è chi gli dava del “sentimentale” chi del “troppo sensibile” chi del “romanticone” ecc ecc e quel poveretto di Cuore diventava a volte rosso rosso, ancora più rosso di quanto non lo fosse di suo.

Soffriva il Cuore, e quando soffriva lui anche Fegato, Pelle, Stomaco e perfino Capelli non stavano granchè bene. Ma lui, il Cuore, si ascoltava da sé palpitare nelle notti senza fine e senza fondo,  si guardava  cercare una ragione perché tutto quel gelo che a volte gli faceva da stanza.  Era lui a dover cercare una ragione per continuare a battere e da lui dipendevano tutti… Allora, per resistere, a volte doveva ripiegarsi su sé stesso e starsene come in letargo. Cheto cheto, buono buono con un solo scopo: resistere. Appunto.

Per resistere doveva ritrovare un battito regolare, una sorta di calma e tranqullità ma per far questo doveva chiudere fuori dalla sua piccola gabbietta tutto ciò che poteva fargli male, dalle bugie alle illusioni, dalle false promesse, alle false speranze. Doveva prendere atto – prendere  atto – che il quotidiano era fatto anche (o soprattutto?) di tanti piccoli o grandi palchi dove marionette travestite e orrendamente truccate danzavano una danza altrettanto orribile, cantavano menzogne e promesse con bocche oscene e ridanciane. Rosse e larghe e bruttissime bocche. La Testa gli parlava (accidenti a lei non stava zitta mai) pertanto per riuscire a sopravvivere doveva fare in modo di non ascoltare più nemmeno lei, sprangare porte e finestre e cercare di far passare la nottata, che a volte era lunga quanto un inverno e a volte era un vero lunghissimo inverno. Infinito. E si ripeteva una frase che aveva letto tanto tempo fa: nessuna notte è tanto lunga da impedire al sole di sorgere.

Aveva provato a rallentare il suo ritmo controllando il respiro, e cercato calore nel fondo del fondo dello spazietto più  piccolo di sé, quello riservato alle Cose Piccole. Ricordava, forse per consolarsi o forse per esorcizzare il pericolo, ogni volta che era stato naufrago di palude, con le sabbie mobili che volevano mangiarlo a tutti i costi. Trascinarlo sul fondo e soffocarlo. Guardava la luna, e anche le stelle, nelle notti gelide che avvolgevano le paludi, ma luna e stelle erano troppo lontane. E le sabbie mobili parevano possedere milioni di dita e … la Testa, quel maledetto testone lassù in cima pesava milioni di chili e non l’aiutava per niente, anzi… era come la classica pietra al Collo, persuasiva e promettente e definitiva come solo una pietra al collo sa essere.

Ricordava tutti i colori che gli era capitato di vedere nel corso della sua esistenza, li ricordava tutti quanti, compresi quelli finti che erano solo una sottile e banalissima pellicola davanti ad uno sfondo grigio che più grigio non si può. Colori ad acqua, pronti a sciogliere miseramente sotto la prima pioggerella o le prime lacrime. Poi c’erano quelli coprenti. Fabbricati da artigiani bugiardi e sapienti. Resistenti all’acqua e anche ai solventi.  Le parole, finte, degli altri, parlate e scritte, molte delle quali incise, sulla sua superficie non sarebbero mai scomparse, con gli anni. Lo sapeva che sarebbero state indelebili, lo sapeva da sempre. E portava senza orgoglio e senza vergogna, le sue cicatrici. Non erano trofei, né meriti, nè  medaglie al valore. Semplicemente era Dolore. Ricordava il piccolo Cuore che aveva incontrato una volta, nella stessa palude fangosa, piiiiiccolo e rosa, quasi come lui un po’ di tempo prima,  e quando aveva cercato di avvicinarsi ad lui. Ricordava il tuono proveniente dal testone che diceva: noooo è un cuore di plastica. Non fidarti mai dei cuori di plastica.

Eh… Ma ci vuole tempo (ma da solo il tempo non basta) per capire quali sono i Cuori di plastica,   freddi gelidi calcolatori, che ti tengono in tasca perché  presto o tardi potresti servire. Perché un bel Cuore sa essere una buona compagnia, una tazza di tè caldo d’inverno fresco in estate, un camino acceso che sa dare calore quando c’è tanto freddo o quando piove. Un ristoro, un androne fresco e ombroso quando il caldo è feroce e asciuga e bagna pelle e occhi calma e disseta, riposa e accoglie. Un lago che sa cullare e trasportare da una riva all’altra senza scossoni, senza far male, ed essere ninna nanna, carezza, sollievo.  E poi la mente inganna. Più di quando sappia fare un cattivo Cuore. Quindi come riconoscere un Cuore di plastica da un Cuore vero? Come? Come salvare i Cuori belli dalle paludi, permettere loro di guardare le stelle senza paura di affogare?  Come non permettere al mondo di usare i Cuori belli? E come fare per sentirli respirare, vederli sorridere.. .. E continuare a credere. Credere.  

BI-SOGNI

Io non ho bisogno di denaro

ho bisogno di sentimenti

di parole

di parole scelte sapientemente

di fiori detti pensieri

di rose dette presenze

di sogni che abitino gli alberi

di canzoni che facciano danzare le statue

di stelle che mormorino

all’orecchio degli amanti.

Ho bisogno di poesia

questa magia che brucia

la pesantezza delle parole

che risveglia le emozioni e dà colori nuovi

(alda merini)

PROMESSE – DUE

Lo Stato non risarcirà il terremoto

Leggo nell’articolo sopra linkato che “solo un paio di settimane fa” lo Stato ha decretato lo STOP ai  risarcimenti per coloro che sono colpiti da calamità naturali.

Ma che tempismo!!!  Ora mi domando – me lo sono sempre domandato ma adesso me lo domando più forte – : possibile che con tutti i sistemi di rilevazione dei movimenti della terra, tutta ‘sta tecnologia, che a sentire alcuni rileva il respiro del pianeta ecc … POSSIBILE che non si riesca mai, dico MAI a prevedere un terremoto? E se invece fosse stato – almeno questa volta – possibile? Il decreto non sarebbe un pelo ad hoc? Giusto un pelo eh? Riccardo dice: ma perchè te pensi che si vergognerebbe qualcuno ad emetterlo “dopo”? No, non lo penso affatto. Figuriamoci. C’è da aspettarsi di tutto da questa classe dirigente ladra, da questo mare nostrum di delfini trote e moscardini vari che a far bene le cose, si farebbe un bel fritto misto di tutti con l’olio bollente, quello scadente si intende.  Ma è tempo di elezioni … Si è votato, giusto giusto in questi giorni. Voti che sono (anche) sondaggi per le elezioni 2013. Si sa, i voti valgono bene la vita di quattro gatti sotto le macerie. Bella mossa, quella di far emettere il decreto “niente soldi per le calamità naturali” da un governo “tecnico” . Che di tecnico non ha proprio niente. Ma proprio niente. Governi incapaci, inutili, assenti adesso come prima. Anzi.. molto meglio sarebbe se fossero assenti per davvero: avranno piu’ soldi le famiglie.  Soli siamo soli comunque. Allora che ci lascino SOLI. Fuori dai coglioni. TUTTI. Ma per davvero.

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PROMESSE

 (grazie a RT per la foto e per il resto)

Fatto salvo che imbrattare muri cabine telefoniche treni e quant’altro “non s’ha da fare” … bè … è bello vedere una scritta come questa. Tra le tante Forza Inter Viva la f….. ecc.. un pensiero d’amore.

Che commuove, fa sorridere e anche invidiare un pochino quella stella che probabilmente avrà avuto modo di brillare (io spero di sì, che sia accaduto..)

Assolviamo l’autore dal peccato di avere scritto sopra una cabina telefonica?

PELLE

Pioveva. Sul ponte, nel fiume e sull’impermeabile di Elena.  La pioggia rendeva il fiume frizzante. Il cielo, scuro, colore del fumo, sembrava dovesse cadere sulla terra, da un momento all’altro. Invece stava là, come sostenuto da una forza invisibile, misteriosa. Cadevano solo lacrime di cielo, gelate. Elena si domandò se il cielo le piange già fredde oppure se si raffreddano durante il percorso, dagli occhi alla terra. La pioggia le ricordava sempre un novembre di tanto tempo fa, quando non c’era alcuna ragione per cui  quel giorno dovesse splendere il sole tantomeno brillare le stelle quando il giorno fu sera.

Poco prima era sul treno: odore di umido mescolato a quello fresco del mandarino che la ragazza con i capelli neri mangiava lentamente, dividendo la sua attenzione tra una rivista di gossip e le unghie smaltate di rosso. Odori .. ecco cosa rimane dentro per sempre, pensò Elena. Gli odori. Ponti tra i ricordi incastonati in luoghi remoti della mente, trampolini tra presente e passato, onde radio velocissime e far riaffiorare momenti sia pure insignificanti ma pregni di odore. Non le parole, non i colori, non i gesti ma gli odori. Sapeva che avrebbe per sempre associato il treno del ritorno con il profumo del mandarino. Che avrebbe scordato le fattezze del viso della ragazza e anche le sue unghie rosse, troppo rosse e troppo lunghe ma che non avrebbe dimenticato l’odore.

Era stata indecisa per tanto tempo, Elena, ma alla fine guardando un’ ultima volta il biglietto, comperato tanto tempo prima, decise che era arrivato il tempo di fare ritorno. Mancava da molti anni da quella che un tempo il suo cuore considerava “casa”: una vita di spostamenti, studi e poi lavoro e poi specializzazioni e viaggi e ancora lavoro.

E poi Pietro. Che era diventato il suo tutto, la casa, l’amore, il calore, e un progetto. La certezza del ritorno, la poesia delle cose delicate ma anche la passione, il compagno con cui attraversava il tempo lontano dai luoghi comuni, dalle convenzioni, dai rapporti finti, dalle frasi fatte. Con lui non c’era palcoscenico, nè le pesanti tende di velluto a nascondere verità o bugie. Non c’era compromesso, non c’erano copioni da recitare.

Lo aveva incontrato su una spiaggia, in un ottobre insolitamente caldo, e conosciuto grazie ad un banalissimo sassolino colorato che stava raccogliendo sul bagnasciuga.

Lui divenne le sue ali: con lui attraversava i confini del tempo, abbandonava la pelle della “brava ragazza” che fin da piccola le avevano cucito su misura cento mani di sarti tutti uguali, usando lo stesso cartamodello con cui era stata cucita la pelle di sua madre e quella di sua sorella. Era diventata un buon prodotto, lo stesso che altri avevano desiderato, deciso, progettato e infine costruito.

Pietro era il sogno, la mano che scioglie le catene, era l’aria, il respiro, il battito del cuore. I suoi fianchi erano la casa dalle finestre aperte, la sua pelle sapeva di cose buone, di libertà. Dalle sue labbra non uscivano mai parole congelate nemmeno in inverno.  Aveva ascoltato parole così gelate, nella sua vita, che bisognava metterle accanto al fuoco per poterle ascoltare. Ma niente in Pietro era gelato anzi lui era il suo disgelo, il fiato caldo sugli strati duri del cuore. Gli strati costruiti dagli altri.

Con lui aveva smesso di vivere il tempo degli altri, di misurare le cose con il metro degli altri, e di vivere la vita degli altri. Piano piano aveva ritrovato la sua pelle, lasciato quella finta, un pezzetto al giorno, pagando ogni giorno con un po’ di dolore. Ma sapeva che in fondo c’era una Elena da raggiungere, da ritrovare, da amare.

Aveva smesso di cercare di uccidere il tempo, perché non gridasse troppo forte con una voce che non era la sua, perché smettesse di avanzare con passi che non erano i suoi, perché finisse di chiederle di ingannarlo, con menzogne e illusioni e false convinzioni.  Aveva smesso di cercare rifugio nel sonno, nel lavoro che erano solo palliativi, farmaci inefficaci per l’aridità dell’anima che mangiava l’anima e ogni tenerezza della vita.

Aveva imparato ad annusare la terra, l’erba, a sentire la pelle che, finalmente sua, le parlava una lingua comprensibile.  Aveva conosciuto l’odore delle stelle: lo portava la brezza della sera sulla schiena nuda di Pietro sul terrazzo,  nelle sere d’estate. Leggeva poesie nelle mani callose di un uomo che lavora, come tra le ciglia dei bimbi quando ridono, sui visi degli anziani tra i solchi della vita. Riconosceva il cuore di chi è capace di stupire e sentiva il suo cuore capace di stupirsi.  

Poi Pietro se ne andò, come una stagione, come le nuvole, come la neve.  Era novembre, pioveva. La offesero e ferirono tutti gli arcobaleni che vennero, come tutte le primavere che arrivarono una dietro l’altra, una più spudorata dell’altra. Esplosioni di colori e odori, cieli turchesi e canti di uccelli. Prati verdi e laghi di smeraldo liquido, autunni lussureggianti di rossi accesi e ori sui suoi giorni erano offese, colpi di piccone sopra un dolore profondo e sempre vivo.

Non era un caso, la pioggia, il giorno del ritorno. Non lo era affatto. La pioggia la stava accogliendo, era il benvenuto del cielo e non il pianto. Per una volta almeno. Tolse l’impermeabile per offrire alla pioggia la pelle, la sua vera pelle, quella ritrovata e si rese conto in quel momento di essere tornata a casa tanto tempo prima: capì che è quando si ritrova la propria pelle che si torna davvero a casa.  Il tempo di Pietro è stato questo: accompagnarla dentro casa, dentro sé stessa, la sola, unica, vera casa.  Permise alla pioggia di idratare la sua pelle: sapeva che sarebbe rifiorita perchè era la sua.

Forse ci sono incontri che hanno il compito di accompagnarci, di traghettarci in un posto, di seminare un pezzo del nostro orto con i nostri stessi semi che abbiamo in tasca… ma non lo sappiamo, pensò a voce alta Elena, e cominciò a sentire freddo.

La sua pelle ricominciò a parlarle anzi non aveva mai smesso. Solo che lei riprese ad ascoltarla.  Si rimise l’impermeabile: qualcosa scivolò dalla tasca. Si chinò: era un piccolo sasso colorato.

PER AURORA

sottotitolo:

quando la zia dà i numeri

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Buongiorno !! Grido’ Uno incontrando per la strada Sette.

Ohh buongiorno a Te, Uno – risposte Sette con un leggero inchino.

Mmmm eslamò Uno … Sei sempre con quel braccino teso, come qualcuno un po’ di anni fa…

Eh mio caro Uno, non sono di certo stato io a copiare quel saluto! Io sono nato prima, molto tempo prima sai?  Sono antico, molto antico e sono anche un numero speciale.  Come? Perchè  sono speciale???

Sette sono le note musicali, i giorni della settimana, sette sono le stelle delle Pleiadi visibili dalla Terra. Sette sono le virtu’ e anche i vizi capitali, le piaghe d’Egitto, i libri della Bibbia. Sono sette i dolori della Madonna, i re di Roma, i veli della veste di Salomè. Devo continuare?

No! Per carità! Anzi perdonami se con tutta questa Storia mi sono soffermato sul saluto fascista!!! Promesso che non lo faro’ più. Prendiamo un caffè?

Volentieri!

Mentre passeggiavano per la stradina del parco, ciascuno con il proprio braccino, uno teso, l’altro a mezz’asta, videro arrivare in contromano una specie di lumachina, che rotolava, rotolava, perchè il sentiero, che era un po’ in salita  per Uno e Sette, era in discesa per Sei.

Sei si fermò appena in tempo, qualche istante prima di cozzare contro la gambetta secca secca di Sette grazie a una frenata stile Willy il Coyote sull’orlo del precipizio quando è rincorso da Beep Beep.

Buongiorno!  – dissero in coro Uno e Sette!

Pant Pant… Buongiorno!  – rispose Sei. Beati voi, che non rischiate di rotolare. Io con questo pancino tondo e un baricentro un po’ precario, potrete ben immaginare che fatica è camminare lungo i sentieri in discesa quando mi capita di perdere l’equilibrio! Tra l’altro, poco fa, ero in giro con due dei miei fratelli… Mai più!!! Insieme a passeggio facciamo Sei Sei Sei.. Eh!!! Non è mica una bella cosa quando un gruppo di ragazzini travestiti da Iron Maiden si mettono a canzonarti con “Six Six Six the number of the beast!”  Provare per credere! Proprio oggi ci siamo accordati: in futuro passeggeremo in due, in quattro ma  mai più in tre!

Tre??? Tre??? Siii?? Chi mi ha chiamato?

La vocina arrivava dalla panchina dove un tranquillo Tre se ne stava seduto a leggere il giornale.

Buongiorno Tre! – dissero tutti insieme Uno, Sette e Sei.

Buongiorno a Voi –  rispose Tre lasciando suo giornale sulla panchina, raggiungendoli. Di cosa stavate parlando?

Mah… ognuno di noi parlava delle proprie forme e dei propri dolori e difetti.

Difetti? Io di certo non ne ho! Sono il numero perfetto!!!

Ecco!! Senti coso… numero perfetto, vieni a prendere un caffè con noi? E visto che sei perfetto, paghi tu!

Va bene, andiamo pure ma prima devo telefonare a Quattro che, data la sua forma, si è prestato a far da altalena a una virgola che passava di qua e ora non so più dove sia. Anzi dirò a Quattro di raggiungerci al bar. Di solito la sera facciamo sempre… ehmm quattro passi insieme.

Chiacchierando del piu’ e del meno, Uno, Sette, Sei, e Tre,  raggiunsero il bar che era anche una trattoria.

Il cuoco, Otto, con un bel pancione tondo e un faccione altrettanto tondo stava discutendo con Nove che si burlava di lui perchè a volte entrava nel locale a testa in giù spacciandosi per Sei. Sei un numero monello!!!  diceva Otto, paonazzo, mentre rincorreva Nove,  agitando il suo cappello bianco.

Dietro il bancone del bar, Cinque e Due se la ridevano a crepapelle.

Bè.. è quasi ora di cena. Che ne dite di un aperitivo, al posto del caffè? proposero Cinque e Due, rispettivamente barista e cameriere ma all’occorrenza anche tuttofare.

Due si lamentava sempre, diceva che lavorava per … due. Lo diceva ingiustamente perchè Cinque gli dava sempre… ehmm .. una mano. Appunto!

Benissimo!! – Risposero tutti in coro. – Magari con un po’ di salatini! – Aggiunse Quattro che nel frattempo aveva raggiunto il gruppo.

Eh no!! I salatini sono finiti –  informo’ Cinque.  E’ passato Zero, qualche ora fa, e come sempre fa piazza pulita di tutto. Ora starà dormendo, satollo, sotto qualche albero, indisturbato, dato che nessuno lo vede!!!  Sembra una bolla d’aria, lui!

Non fa niente. Anche senza salatini …

Prosit!

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LABIRINTI

 (Disegno:  Stefano Boer. )

 

“Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perchè l’universo già lo è.”

(Abenjacàn il Bojarì  J.L.Borges)

Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”.

(L’immortale J.L.Borges)

“Dall’inesauribile labirinto di sogni tornai, come a una casa, alla dura prigione. Benedissi la sua umidità, benedissi il suo giaguaro, benedissi il foro della luce, benedissi il mio vecchio corpo dolente, benedissi la tenebra e la pietra”.

(La scrittura del dio J.L.Borges)

info

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

Ricevo diverse segnalazioni: nessuno riesce a commentare. Nemmeno io, senza log-in, posso farlo. Preciso che non ho messo i commenti in moderazione nè mai lo farei a meno che non fossi costretta e finora non è mai successo. Mi spiace, credo sia un problema della piattaforma. In ogni caso, ogni vostro commento mi potrà essere inviato via e mail, e provvederò a pubblicarlo.. So che non è bello ma non vedo altre soluzioni, per ora. Ho scritto al servizio assistenza: aspettiamo.  Nel caso … migreremo su altra piattaforma. Non vedo altre soluzioni.  Grazie. Ori

PS chissà se Splinder aveva qualcosa a che fare con i Maya? 

INFO DUE

Ho scoperto COME commentare 1) se non si possiede un gravatar (l’immaginetta come la chiama Pieffe) nessun problema. Si esce come anonimi, come accade a Pinuccia, Riccardo, Gil  ecc. 2) se si possiede un account (vedi immaginetta) quindi come Pieffe, Petula, Sir Biss, Frost ecc, allora il sistema (non chiedetemi perchè) chiede il log in. Quindi, nella finestrina SOTTO lo spazio per il commento, si clicca sulla W di wordpress e si inseriscono le proprie credenziali (ID e password). Abbiamo fatto la prova ora, con Lotus e funziona. Credo sia un errore, un baco di wordpress. Io non ho cambiato alunchè nelle impostazioni…  Non avrebbe senso dato che il blog viene penalizzato…

 

LA CHICCA – DUE

Il panettiere consegnava ogni mattina il pane a casa, lasciando il sacchetto nella cesta appesa al cancello della casa in cui vivevo all’epoca. Un sabato mi aspettò e mi disse che il suo nipotino desiderava da tempo un cagnolino: fu così che regalai il piccolo di Chicca. Noi avevamo già due cani e poi ero certa che il piccolo sarebbe stato  in buone mani per cui il nipotino del panettiere diventò il nuovo amico del cucciolo di Chicca.  Chicca guarì del tutto: medicine e cure ripristinarono il pelo laddove mancava, la sua salute migliorò e dopo un po’ di tempo si poteva considerare una cagnolina sana e felice. Gli altri nostri cani l’accolsero fin da subito, e lei ogni notte si arrotolava accanto a loro trovando calore e sicurezza e affetto. Abitavamo una villetta, con tre cancelli e un giardino e un orto, situata in una zona del paese costruita a villette. Dopo qualche tempo, notammo un cagnolino, pelo raso, bianco nero,  musetto curioso e occhietti  vispi, fare la posta davanti al nostro cancello: la ragione era fin troppo chiara, Chicca era in calore. Una sera, al rientro a casa di mio fratello, accadde il “fattaccio”: l’inseminator, come fu chiamato, non si lasciò  sfuggire l’occasione di quel cancello spalancato e una domenica di Maggio, proprio il giorno della festa della mamma, Chicca mise al mondo 4 cuccioli. Bellissimi, quattro palle di pelo riccio. Fu una gioia ma anche un problema: a quel punto i cani erano sette, non facilmente gestibili, con  due cancelli che servivano tre automobili. Fortunatamente quattro conoscenti, persone fidatissime e conosciute ci chiesero i piccoli,  i quali  dopo lo svezzamento trovarono casa e amore. Chicca era una cagnolina intelligente, molto intelligente, dotata di un carattere deciso, testardo e soprattutto disobbediente e curioso. Quando capiva che non volevo che facesse qualcosa, guardava il cielo, soffermandosi in punti precisi con grande interesse come se da quell’osservazione dipendesse la sua vita! La cosa mi faceva un po’ arrabbiare ma soprattutto ridere. Era uno spettacolo vedere quanto una cagnetta alta una spanna potesse prendersi gioco di una persona. Una delle sue trasgressioni preferite era quella di uscire  dal cancello ogni volta che questo restava aperto  (il solo  tempo necessario  per passare con l’auto). Dicevo prima che la casa stava in una zona residenziale di villette pertanto le strade servivano solo le case stesse: le piccole uscite di Chicca (tre minuti al massimo) non erano dunque un pericolo, considerando che lei si limitava a pascolare nell’erbetta che cresceva rasente il recinto di casa.  Ma un pomeriggio, questa piccola trasgressione fu fatale. Era una domenica, io stavo leggendo in camera mia, mio padre usci con l’auto ma la cagna del dirimpettaio (libera per la strada)  aggreedì la mia piccola. Sentii un urlo terribile, lo ricordo ancora,  non lo dimenticherò  mai. Uscii con il cuore in gola, caricai la cagnetta in auto: con le gambe tremanti e un senso forte di nausea e disperazione,  non so come raggiunsi un ambulatorio veterinario di quelli aperti 24 ore. La cagna della vicina  le aveva staccato un occhio a morsi. La lasciai li la notte, fu sedata, le vennero date medicine attraverso flebo,  operata il giorno dopo.  La salvarono. Lei rimase la stessa di sempre, allegra, con il suo cuore enorme, la sua fiducia neri confronti di tutti, e del tutto immmutata la sua vivacità.  Passarono altri anni, e l’unico suo occhio si ammalò di cataratta ma lei, come tutti gli animali, aveva il suo nasino: quell’organo meraviglioso e misterioso e potente le permise di vivere bene e di sopperire al resto. Mi trasferii, lei restò con mio padre perchè la mia casa non era idonea ad accoglierla: Chicca era troppo piccola e la casa aveva una recinzione provvisoria e per niente sicura. E poi era un ambiente sconosciuto e sarebbe stata sola tutto il giorno. Provai, a portarla qui, ci provai, ma la vidi disorientata, se pure curiosa, ma si si spezzava il cuore. Sapevo che lo avrei fatto per me e non per lei. La riportai quindi a “casa”. Continuai naturalmente a vederla, ovviamente ad amarla. Poi una domenica venne mio padre a pranzo da me e mi disse che era morta. Non volli sapere come, non lo so nemmeno adesso. Non mi importa di saperlo. Visse 12 anni felice, nonostante il terribile incidente. E questo mi basta. Nemmeno mio padre potrebbe più raccontarmelo, pero’ il cane di mio padre vive con me. Questo lui lo sa, glielo avevo promesso.

Nel post successivo, ci sarà la fotografia della Chicca. Quella del suo piccolo grandissimo cuore è invece impressa in un posto di dentro, per sempre.

LA CHICCA – UNO

Quando arrivò era in condizioni davvero pietose: un coso peloso, pelo tipo rasta, con chiazze di cute totalmente assenti da qualsiasi pelo. Attorno al collo una specie di cordolo, duro al tatto. Probabilmente era stata legata, e forse aveva rotto quella che poteva essere stata una corda. Malnutrita, disidratata, con la bocca asciutta: in bocca residui di calcina. E aveva un cucciolo. Nero, pelosissmo, minuscolo. Avevo notato mio padre andare via diverse volte il sabato e la domenica con il motorino, non prima di aver preso del latte, della carne, una bottiglia di acqua. Ma non era insolito, per lui. Era un cacciatore, ma un po’ atipico. Spesso nutriva i piccoli di coniglio, di volpe. Alcuni dei suoi racconti li avrei accostati, con il tempo, a qualcosa di Mario Rigoni Stern anche se ambienti, animali, scenari ed epoca non corrispondono. Un sabato pomeriggio, gli chiesi, dal balcone dove stesse andando, di nuovo, con latte pane e acqua. Sorrise .. e mi disse che aveva trovato, qualche settimana prima, una cagnolina, in una discarica di materiale edile, con un cucciolo. Mi disse che l’aveva vista cibarsi di calcina, di rimasugli di cemento. Probabilmente non poteva allontanarsi per cercare cibo, per via del cucciolo. Di sicuro il solo sopravvissuto. Lo allattava, lo sapeva il cielo come. Gli chiesi cosa aspettasse ancora.. e lo pregai di portare le bestiole a casa. Mi rispose che era una situazione disperata, gli dissi “appunto”. Forse aspettava questo, mio padre. Partì con il motorino e poco dopo arrivarono. Non dimenticherò mai le condizioni di Chicca (la chiamammo cosi, era piccolissima). La lavammo, le tagliammo quel pelo stopposo usando forbici da giardiniere, bevve a piu’ non posso, e poi latte e poi …. Bè penso si possa immaginare. Il lunedi portai lei e il piccolo dal veterinario. Mi disse che Chicca aveva circa 4-5 anni, lo dedusse dalle condizioni dei denti e mi confermò che sicuramente era stata in una casa, e che con tutta probabilità era scappata da tempo. La curai, con medicine e amore e cuore.
La storia segue … con un altro post. Ora è un po’ difficile, scrivo dal treno e il racconto che verrà comprenderà anche del dolore. Come sempre accade nella vita.

CUORE

Capita mai di voler spegnere la testa. Allontanarla da te. Spegnere i pensieri, le preoccupazioni spesso inutili. La presunzione di dover pensare al domani (quale domani? – ma sei certo che ci sarà?)

Capita mai di voler essere cuore? Non parlare con il cuore, fare l’amore con il cuore, pensare con il cuore, guardare con il cuore

Ma “diventare” il tuo cuore?  Ti capita mai?

A me sì. Devo farmi curare?

ANNI DI PLASTICA

Celeste:  ti va di tirare fuori qualcosa per Controluce? Le carpe hanno fondato un’associazione per la difesa della loro dignità e un sindacato. Chiedono di carpare in pace e hanno fatto sapere che il primo aprile si vendicheranno. Una certa Wanda apriva il corteo e faceva anche un po’ paura..

Riccardo: come? Scrivere? Ehi, ma come scrivere??? …  non hai tempo? … si,  ma…  si, ho capito ma… no, dai, ma come io… si,  ho visto come… cioè no… fammi parlare… no dai… ah… ma… ah, vabbè…

No, impossibile. Non può essere successo di nuovo. Ma che ci faccio io qui?? Mi par d’essere l’intervallo della Rai, quello con l’arpa e le città d’Italia! Ma pensa te come si deve andare a finire. E poi che dico? Si, ho capito che la padrona di casa non c’ha tempo, ho capito che questi stanno andando a ramengo coi commenti e similari, ma che c’entro io?? Ok, ok. Come al solito la “parità dei sessi” s’espleta con la capitolazione di uno dei due. Per pietà non fatemi dire quale, dei due. OK. Bene…

Buonasera, eh. … come va…? Hm, animo. Vabè, frughiamo nella mente alla ricerca di qualche argomento che mi sia interessato e di cui possa dire qualcosa che non sia stereotipato, banale o in qualunque senso prevedibile e alla fine tragicamente noioso. In effetti qualcosa c’è (spero), ed è anche uno di quei fatti che riempiono la cronaca new style, di quella brutta brutta, della tragedia spettacolo, dei giornalisti delle lacrime, della spettacolarizzazione dell’incubo. Ma che in effetti, secondo me, a differenza dei vari delitti di varie parti d’Italia, si presta a diversi aspetti di approfondimento. E poi l’interesse va scemando, quindi se ne può anche parlare un po’ più seriamente, o meglio, serenamente. In breve, “La Nave”, come ormai viene definita, il naufragio della Costa Concordia. Ok, non se ne può più. Questo in effetti è il primo sentimento, concordo (ops). E sarà che io ho un minimo di conflitto d’interessi dato che quello che considero uno dei posti più belli del mondo è lì a due passi, e ci vado da tanti anni in cerca di boh: bellezza, sincerità, asprezza anche, e di nuovo bellezza, storia e potrei continuare ad libitum, ossia l’isola d’Elba. Per cui mi interessa sapere come e se riusciranno a bonificare quella carcassa preistorica da tutti i suoi agenti inquinanti, e a pregare perchè tutto quello che conosco di quei posti possa continuare ad esistere, piante, animali, coste anfratti e insenature, e la gente che ti vende i sugarelli pescati la notte dalla barca sul porticciolo. Non mi dilungherò nelle disquisizioni tecniche delle potenzialità distruttive del carburante (si chiama “bunker”, è quanto di più “scarto” ci sia, è l’ultimo prodotto estratto dalle torri di raffinazione del petrolio, più raffinato solo dell’asfalto che si mette sulle strade. E’ così duro, si, duro, solido, che per essere usato va sciolto col vapore a centinaia di gradi), e nemmeno dell’olio lubrificante (nella vostra auto ce ne sono circa quattro litri no? Ossia poco più di tre chili e due. Beh, in quell’arnese ce ne sono quaranta tonnellate). Se fuoriuscissero, e non pensiamo a cosa sarebbe successo se fosse affondata in senso proprio, semplicemente distruggerebbero l’arcipelago toscano. Dicevo, il recupero e la bonifica lo seguo con ansia per quanto ho descritto, ma c’è altro che mi ha colpito e che vorrei condividere. La prima cosa ovvia è che ha fatto più danni Schettino in poche ore che Berlusconi in vent’anni di “cavalli in senato” in guisa di novello (si fa per dire) Caligola. Infatti, Berlusconi è uno che “non si sa come” è arrivato per “meriti” suoi ad avere l’influenza che ha avuto e l’ha usata allegramente a proprio vantaggio (al proposito segnalo un articolo dell’Economist “The man who screwed an entire country” ossia “l’uomo che ha fottuto un intero paese” che definirei bellissimo se non ci fosse da mettersi a bestemmiare

http://www.economist.com/node/18805327

e in una traduzione non fedelissima ma che rende comunque un’idea

http://www.metaforum.it/showthread.php/20658-Economist-l%E2%80%99uomo-che-ha-preso-in-giro-un-intero-paese

in rete ce ne sono anche altre per chi fosse interessato) ma è comunque un fatto che interessa un solo essere umano, quindi è un caso circoscritto, limitato e, si può presumere, particolare. Schettino invece fa paura davvero, perchè rappresenta il “manager qualunque” italiano, che fa lo splendido, osannato nel suo fascinoso completo bianco, potente al punto di poter sposare o arrestare chiunque sul suo pezzo d’italia galleggiante, di poter decidere della sorte, guidare e condurre gli esseri umani che gli sono stati affidati. E usare tutto questo per fare bravate, e fare colpo e comunque goderne a livello assolutamente personale, senza alcun obbligo associato. Se ne trovano esempi analoghi specialmente nel mondo finanziario o pseudoimprenditoriale italiano e non solo. E, una volta “fatto il guaio”, subito dopo fuggire dalle proprie responsabilità, pensando solo a salvare se stesso. Un danno etico incommensurabile, per il nostro paese, dove “paese” non è quel senso vago (per taluni certissimo, come “l’esistenza di Dio” d’altra parte) di confini territoriali, bensì di condivisione di valori derivanti dalla storia culturale precedente e perchè no, di una lingua. Al pari di quei cowboy che hanno usato uno degli aeroplani militari più evoluti esistenti, per giocare al loro videogame prima di tornare a casa loro, senza conoscere nè il posto e nemmeno avere guardato le carte: bravata che è costata la vita a venti persone (funivia del Cermis, per chi non ricordasse). L’atteggiamento è lo stesso. Si, è osceno, e mi ha dato fastidio. Anche la storia personale delle singole persone è stato piuttosto d’impatto (quella oggettiva, non ho mai voluto ascoltare nemmeno una trasmissione di spettacolarizzazione della tragedia). Stupidamente, quando hanno ritrovato la bambina dispersa ho pensato a quello che… beh, chiaro a cosa ho pensato, mi sembra normale. Ma c’era ancora qualcosa, che non avevo trovato cosa fosse, che mi aveva colpito. Poi ho capito. Era la nave. Non mi stava facendo nessun effetto vedere la morte di quella nave. Strano. Anche in alcuni temi dei bambini del Giglio si trova il dispiacere per questa enorme balena che è venuta a morire a casa loro.

http://iltirreno.gelocal.it/grosseto/cronaca/2012/02/02/news/temi-in-classe-1.3136678

Se avete qualche minuto leggeteli, perchè ci sono cose che i grandi non immaginano. Punti di vista, oppure dettagli insignificanti che invece sono la cosa che ottunde tutto il resto della scena. Ok, esprimetevi liberamente: “questo è scemo” è un’espressione perfettamente accettabile nei miei confronti, lo dico io per primo di me stesso. Ecco, però, dopo che vi sarete sfogati, e ripeto, condivido, provate a starmi a sentire. L’avete vista quella nave? Mi ricordo la sensazione che all’inizio degli anni novanta mi fece il vedere il varo di una delle prime di queste dai cantieri di Trieste. Mi venne da dire: “ma questa non è una nave”. Non so cosa fosse, ma una nave no. È enorme. Quadrata. Sgraziata. Una nave è filante, ha una prua lunga ed affilata, un sistema di ponti discreto, con una specie di terrazzamenti elegante, spazioso, un po’ piramidale, ed una poppa che non è possibile che sia un nome attribuito a quella parte per caso: la poppa di una nave è una bellissima “poppa”, tout court. Quella, no. E tantomeno la Concordia. E poi l’avete vista dentro? Quello sfarzo vistoso e pacchiano, inutilmente carico di luci (ovvio, tutte banalmente artificiali) e di scalinate, ascensori di vetro, a vista, e poi ori e marmi e zampilli. E moquette. Ovunque. Mamma mia… Mi ricorda un hotel di Abu Dhabi dove alloggiai una volta. E un altro di Houston, di una missione successiva. Uguali, entrambi. Se non avessi saputo dove fossi stato nel momento del risveglio, certo non l’avrei capito dall’ambiente circostante. Sfarzo, ricchezza (o almeno lustrini e paillettes) a gogo. Stile? Non pervenuto. Ok, manca un pezzo. Tra i miei “frugamenti nelle soffitte” c’è stato anche la storia dei transatlantici, e in particolare quelli italiani. Ora, detta così paio un accademico di storia navale: niente di tutto questo, solo semplice curiosità e un minimo di approfondimento. Quindi, mentre i vari Lusitania e Titanic tra tutti erano delle macchine, per quanto fascinosissme, ma vecchie, sia per la costruzione, sia “socialmente” (basta pensare alla 3° classe, o all’alimentazione manuale delle caldaie a vapore in condizioni al limite della resitenza umana, testimonianze tecniche della struttura sociale del tempo, e del valore “variabile” della vita umana), lo stile, l’eleganza, la classe assolute erano rappresentate dalle navi italiane degli anni ‘50 e ‘60. Penso alla Michelangelo, alla Raffaello, e prima di loro all’Andrea Doria.

http://www.michelangelo-raffaello.com/italian_site/arte_a_bordo/arch_mich/arch_mich_pag1/arch_mich_1it.htm

Vere e proprie opere d’arte galleggianti, (e taccio dell’aspetto progettuale della macchina in sè). C’era ricerca, in tutta l’idea: dalla linea dello scafo ai locali, agli arredi, alle opere degli artisti del tempo, a decorare gli ambienti. C’erano soluzioni d’avanguardia, per l’epoca, a bordo. Questi eravamo “noi” negli anni ’60. Alla Michelangelo successe un incidente, fu travolta da un’onda oceanica anomala, e ci furono danni, e morti. All’epoca tutti i transatlantici, di ogni nazione e paese, furono mandati in cantiere per le modifiche necessarie, perchè “se è successo a loro” allora è grave davvero. Eravamo “quelli bravi”, all’epoca. E la Concordia? Io non ho competenze navali, ma di macchine un po’ me ne intendo, e anche di quelle che sono un po’ bastarde dal punto di vista della sicurezza: ad un certo punto del progetto, diciamo a metà, usa fare una riunione che si chiama HAZOP, ossia “HAZard and OPerability analysis”, cioè “analisi di pericolo e operabilità”

http://it.wikipedia.org/wiki/HAZOP

Tutti quelli coinvolti nel progetto sono invitati a formulare quesiti del tipo “cosa succede se”: cosa succede se si rompe quello, cosa succede se tizio non è lì a fare quello che deve, cosa succede se etc etc. E’ fondamentale, ma costruendo la Concordia, l’hanno fatto??? Cosa succede se quel ganzo di schettino la manda sugli scogli? Ci sta o no, con tanta acqua da tutte le parti, in mare? Appena è entrata acqua, (e lo scafo era singolo, che costa meno, ma s’è allagato subito tutto: ari-hazop), hanno perso all’istante i motori, tutti i controlli, compreso il timone, oltre alle pompe di bilanciamento (che sono quelle che siccome il fondo è piatto, e non c’è la chiglia (la nave è alta sessanta metri ma ne pesca solo otto…) per entrare anche nella laguna di Venezia perchè fa figo, la nave non sta diritta da sola come sarebbe naturale che fosse, ma c’ha bisogno di un sistema di pompe che bilancino l’acqua in dei serbatoi sui due lati della nave stessa): perse le pompe, la nave non è andata giù “pari”, ma si è rovesciata, che è stato il guaio dei guai. Schettino è solo la punta dell’iceberg (appunto), la tragedia della Concordia è ben più grave, ed è stata principalmente culturale. E allora io dico. Quando un’alluvione spazza la Biblioteca Nazionale, quando scoppia una bomba agli Uffizi, quando minano i due Buddha. Quando il museo nazionale di Baghdad viene sacheggiato. Quando infettano un lago rimasto intatto per venti milioni di anni. Quando succedono cose così, tutti perdiamo qualcosa. C’è anche chi sente male, quasi fisicamente, c’è chi pensa ad un essere viviente con un’anima, che muore. Beh, “perdere” la Raffaello o la Michelangelo, a sapere cosa sono state, a me, strettamente a me, suscita qualcosa di simile. Ovvio, lo capisco che non sono il museo di Baghdad. Ma perchè considerarle solo mezzi di tarsporto obsoleti, e non piuttosto delle opere d’arte? E non è allora un delitto sbarazzarsene a prezzo di rottame? La Tour Eiffel, è forse da vendere “alla libbra”, anche se c’hanno provato, ai tempi? (citazione da un’altro vecchio amore)

http://www.youtube.com/watch?v=RdD6L4cKKU8&feature=fvwrel – tradotto qui

http://www.dusk.it/Dusk_trselling.htm

ma qui è meglio che non mi si segua). Invece il grande cetaceo di metallo agonizzante appena fuori di Giglio porto beh, non ha un’anima. Ecco perchè non mi fa pena. E’ frutto di puro conto economico, di un senso del bello americano e stereotipato e omologato, condiviso e accettato, senza rischi, da “vincitore” che come esporta la democrazia in Iraq, così contamina come catrame ogni altra concezione del “bello” in sè. D’altra parte non è arte, è solo un mezzo di trasporto, no? E da “polli in batteria”, senza gloria, stile Ryanair, dove corri a prenderti il posto come sull’autobus, e non da Pan Am anni ’70. Vabè.

Mi fa un po’ compassione, questo gigante senza l’anima, e senza significato. Forse non se lo meritava, forse lei voleva essere una regina come quelle che l’hanno preceduta. Ma, a lei come a noi, sono toccati questi anni di plastica, questo tempo, e questi “nani” schettini, così lontani dai giganti di solo settant’anni fa, ma che sembra così tanto tempo.

Riccardo

PICCOLE VOCI

Ehi signore! Signoreeeee!!

Signore! Dico a te. Sì, proprio a te! Parli la mia lingua?

L’uomo guardò a destra, poi a sinistra, infine in alto, sopra la magnolia e poi sopra il muretto, chiazzato di muschio.

Signoreeee ma sei sordo? Dico a te, si proprio a te, con la camicia a quadri, gli scarponi grossi e … bè molto altro non riesco a vedere perché sono piccolissimo. Anzi, già che ci siamo, stai attento a non schiacciarmi. Di questi tempi tutti girano con la testa rivolta verso il cielo e nessuno più bada a ciò che vive sul suolo. Tutta colpa di questi pensieri. Già … I pensieri degli uomini che sono così tanti che non stanno più nelle teste e allora hanno riempito il cielo. C’è un traffico, lassù! E una grandissima confusione. Eh si, perché i pensieri si scontrano, un po’ come facevano i bambini alle giostre. Quando i pensieri belli si incontrano tra loro allora cadono dei semini, qui, sulla terra e nascono delle piantine. Invece quando i pensieri cattivi incontrano altri pensieri cattivi, nascono dei bruttissimi virus, contagiosi e anche delle piantine, ma tutte spinose e senza fiori né profumo.

Ahhhh ma allora sei proprio sordo! Oppure sei tonto? Devo ancora capire… Insomma non mi senti? Eppure io vedo i tuoi pensieri che escono dalla tua testa. Eggià, anche te ne hai tanti, non ci stanno più dentro, sono troppo grandi per una testa così piccola. Senza offesa eh! Nemmeno il cuore riesce ad essere d’aiuto. Non ce la fa. Troppo piccolo anche lui.  Dicevo che li vedo, i tuoi pensieri: vedo i numeri, che scorrono sopra delle striscioline a righe bianche e grigie: il mutuo, vero? E poi vedo una data, e attorno a questa uno strato denso di ansia. Capisco: ti scade il contratto di lavoro. E vedo che escono tanti pensieri a forma di punto interrogativo: il futuro che vorresti immaginare. E vedo pensieri con il volto. Sono volti salutati, vero? Separazioni, lacerazioni, dolori definitivi. E poi vedo pensieri liquidi,  trasparenti, come acqua. Lo so, lo so, sono lacrime, quelle passate e anche quelle di adesso, tra poco saranno passate anche queste, evaporeranno e andranno a ingrossare questo cielo. Questo cielo troppo pieno di pensieri che stanno oscurando il sole.

Signoreeeee  Yuuuu uuuuu’ ! Perché non guardi bene? Sono qui, proprio vicino al tuo scarpone (mamma mia ma che piedone che hai!) … Sono proprio quella piantina minuscola, appena nata, figlia di due pensieri belli, anzi bellissimi che si sono scontrati nel cielo. Ecco, è caduto un semino e sono nato io. Sarò un albero, tra un po’ di tempo e allora potremo essere amici – sempre che ti decidi a portare il tuo scarpone un po’ più in là altrimenti … la vedo difficile! E sempre che in questo cielo resti qualche squarcio da far passare il sole.  I miei genitori, che come ti ho appena detto sono pensieri belli anzi bellissimi,  sono fatti di una mescolanza di sostanze anche se non saprei dirti le dosi. Li sentivo parlare, prima di cadere sulla terra e dicevano che sono fatti di speranza e di coraggio e poi altro che ora non ricordo. Mi hanno fatto un sorriso e mi hanno detto: vai,  avrai un po’ di terra che ti farà da mamma e poi crescerai e sarai bellissimo. Non mi hanno detto che avrei trovato scarponi e cielo scuro, ma io so che i pensieri belli, tutti gli amici dei miei genitori,  mi aiutano dal cielo e combattono i pensieri cattivi per far in modo di farmi arrivare sempre sempre un po’ di luce e di aria. Con un po’ di fortuna e .. scarponi permettendo, crescerò.

L’uomo ascoltava e mentre spostava il suo piedone da quel minuscolo germoglio, pianse, pianse tanto che in pochi istanti il germoglio crebbe diventando una piantina. Piccola, si sa, ma una piantina, non più un germoglio. E  l’uomo, commosso e quasi felice, mandò in cielo pensieri belli. Cadranno altri semini sulla terra.

Ma voi, state attenti a dove mettete i vostri piedoni. Mi raccomando eh!

.

SILENZIOSAMENTE

cuore-di-neve

Ore 9: sms

“C’è un muro di neve, e un uomo, che in silenzio e senza farsi notare, sta spalando la neve dal viale e liberando gli alberi. Ho capito solo ora chi è: il papà di una compagna di scuola di S.”

Ecco. Ci sono case che per arrivarci si deve percorrere una stradina sterrata, e capita che nevica. Nevica tanto, tantissimo da trovarsi la mattina dentro un presepe, una magia ovattata, incastonata tra  montagne di zucchero. Pare di vedere la pala arancione in mano a “papy” che rende possibile entrare ed uscire da casa, in macchina. Ma ci sono papà che “vanno in cielo”, come dice la piccola A. e allora c’è la magia di un gesto. Silenzioso e ripetitivo che libera il viale dalla tanta neve che è caduta tutta la notte. E che cade ancora.

L’ARROGANZA DEI PERDENTI

gatinha-arrogante

Trasolco. Si comincia con quello meno visibile, quasi virtuale: richieste di trasferimento di linee telefoniche, internet, utenze varie. Permessi: comunali, condominiali ecc. E poi si entra nel vivo: restituzione e/o distruzione di documenti, sgombero cantine, soppalchi, ripostigli. Indi inscatolamento di tutto ciò che deve essere trasferito, imballaggi, fogli millebolle per protezione vetri, computer, tastiere, monitor, quadri, cristalli, piantane, lampade ecc. Questi fatti personalmente, con una Celeste un po’ grigio polvere dalla testa ai piedi. I nuovi uffici sono al quarto piano di una casa d’epoca: ascensori stretti, quelli con il cancelletto in ferro battuto. La casa affaccia sulla circonvallazione che è anche corsia preferenziale bus nonchè ovviamente senso unico. Niente permessi a breve perchè occorrono tre vigili, deviazione della linea bus 94, permesso ATM, assicurazioni varie ecc. Che fare? Unica soluzione: trasporto dalla strada al piano a mano. Tutto a mano: mobili e scatoloni.  Preventivi nuovi e poi  la scelta. Ieri hanno smontato i mobili negli attuali uffici e oggi sono arrivati nei nuovi. Una squadra di persone meravigliosamente efficienti, discerete, maneggiavano con cura ogni cosa, come fosse loro. Mi ha colpito anche il silenzio con cui tutto si è svolto: pochissimo rumore, pochissime parole e tanti sorrisi. Rispetto, delicatezza, gentilezza. Oggi ero ad accogliere mobili e cose nei nuovi locali: ho lavorato anche io, ho raccolto  scatoloni, li ho portati a destinazione nelle varie stanze: no.. signora no… questo è troppo pesante! Lasci, faccio io.  Non mi è mai piaciuto stare a guardare altri che lavorano, provo un profondo disagio. Ogni tanto qualcuno chiedeva timidamente “posso usare il bagno”. Altri dell’acqua (avevo mostrato subito dove stava il boccione e il dispenser..) Ogni tanto offrivo il caffè. Capivano bene la nostra lingua ma la parlavano con un pochino di difficoltà, sempre con il sorriso, perfino quando li incrociavo carichi si peso sulle spalle, sorridevano e si scusavano (loro) mentre ero io, casomai, ad intralciare i lavori.  Hanno lavorato dalle 7 alle 8 di questa sera, ininterrottamente fatta salva un’ora per il pranzo. Sudori e sorrisi, incroci pei corridoi. scusi signora, prego, passi prima lei…. Poi ho pensato all’arroganza che subisco ogni giorno da giacche cravatte gemelli mont blanc ecc ecc. L’arroganza dei perdenti. La tracontanza delle piccole persone. Il diavolo veste prada. Spesso.

ECCOMI

Eccomi.

E’ un po’ che non scrivo, ma ci sono delle ragioni, naturalmente. La principale ragione sta indubbiamente nel  cambio di casa: non ci si sente subito a casa dopo un trasloco, no?  Inoltre io sono un bel po’ ehmmm …  sentimentale? Mi affeziono ai luoghi che mi hanno dato emozioni e che mi hanno dato la possibilità di regalarne qualcuna. Che devo fare? Sono fatta così. Splinder è, forse, una piattaforma meno evoluta di questa, un prodotto meno complesso per ciò che sta “dietro” il sito visibile, insomma un abbigliamento intimo meno sofisticato. Ma … Controluce è nata su Splinder ed è là che è incominciata l’avventura. Ci metto sempre un bel po’ a cambiare: sto usando un nuovo PC, con Windows 7 al posto di XP e ancora non mi ci sono abituata eppure per lavoro si deve cambiare spesso abitudini, anzi.. non ci si fa nemmeno in tempo ad abituarsi a qualcosa che …. tracchete,  cambia tutto. Per fortuna o per sfortuna, chissà. Poi di Splinder conoscevo l’editor compresi i difetti, sapevo perfino mettere la musica e ultimamente c’erano anche le foto dell’album su Flickr che scorrevano come un film… Ecco.

Non ho molte cose da dire, o forse ne ho tantissime il che produce il medesimo effetto cioè il vuoto pneumatico. Questi mesi sono stati particolarmente densi, per il mio lavoro e le varie vicende connesse collaterali e conseguenti.  Mesi forieri di amarezze, delusioni profonde, spaccature, e urgenza di cambiamenti. Questi eventi avrebbero  lasciato Controluce un bel po’ orfana, se non ci foste stati voi, che passate di qui, a dare fiato e brio. Grazie, davvero. Ora alcune cose sembrano aver trovato se non equilibrio, almeno una nuova collocazione nella mia mente e un nuovo posto nella mia esistenza. Appena scopro qual è questo posto, ve lo dico eh. Promesso.

Il Natale, appena passato. Che dire?  Con il passare degli anni, vuoi perchè si diventa un po’ più saggi, vuoi perchè si abbassa la soglia di tolleranza alle ipocrisie, e si alzano le difese immunitarie nei confronti delle bugie infiocchettate, dei baci e dei sorrisi di plastica, dei regali obbligati, ci si fa toccare sempre meno da quello che è quello spirito che non c’entra un bel niente con il Natale e si cerca di resistere e sopravvivere alla fiera dell’inutilità, al circo dell’ipocrisia, ai messaggini di auguri che nascondono (spesso nemmeno tanto bene) cattiverie, invidie e indifferenza. Ecco, mancava un po’ di retorica nel web senza che Controluce ci mettesse del suo.  E vabbè. Ma già che ci siamo … andiamo avanti. Da un bel po’ di anni sono praticamente immune allo stress da regalodinatale. E credo sia una gran bella cosa, un bel passo avanti verso la guarigione dalla sindrome del babbonatale a caccia di un regalo qualsiasi purchè sia qualcosa perchè lei/lui lo scorso anno “me lo ha fatto”.

La città di Milano, per quanto ho potuto vedere,  si è vestita poco, questo Natale: poco sfarzo, atmosfera piuttosto sobria. Gliene sono grata: lo scorso anno mi veniva da piangere passando per Piazza Duomo deturpata dall’enorme store Tiffany color turchese modello pacco di Natale (pacco in tutti i sensi…) al centro del quale troneggiava un abete, brutto pure questo. Per non parlare delle enormi stelle pendenti dalla volta della Galleria, una delle quali è crollata sopra la testa di una signora, pochi istanti prima che passassi io, per andare da Hoepli (e poi dicono che le stelle cadenti esaudiscono i desideri…). Non sono mancate, ovvio, le scene di panico da regalo: “oddio mi sono dimenticata del regalo per carlo…. ora mi  infilo in un negozio e gli prendo qualcosa”. Che tristezza ! Una tristezza infinita!  Oppure: “quest’anno mi sono portata avanti, ho cominciato a ottobre e adesso me ne mancano soltanto 5 e poi ho finito”.  E poi i fiori: una sera ho preso il treno reggendo una foresta tra le braccia… E poi mi dicono: stai attenta a quest’ora ci sono in giro delle brutte persone. Eh si, ma io ho un albero tra le mani, hai presente le legnate? Ecco.

Spero che riuscirete a perdonarmi questo post, scritto perchè avevo voglia di trovarvi, e poi perchè mi manca. Mi manca Controluce e mi manca ciò che accade sotto ogni post. L’altro giorno Riccardo si è messo a rileggere “Capito?” un post che ha raccolto circa 120 interventi. un record. E Controluce non ha interventi banali tipo: ma ciaaaaoooo passavo di quaaaa ti faccio un saluto Bacini…..  ma cose belle, vere, confronti, e anche umorismo, certo, bello, intelligente, elegante.

Eh già perchè la classe non è acqua… Infatti talvolta qui sembra vino.. (o grappa). Ma di qualità. Poi ci sono i gatti di razza, e qualche animaletto saltellante, con le orecchiette un po’ basse, ma di razza anche lui,  cui vogliamo tutti bene.  Una nonna che alleva oche (con il pedigree of course), un elefantino che pare abbia lasciato la proboscide incastrata tra i dentini dell’htlm di Splinder e altri animali non meno preziosi.

E per concludere questo post auto-referenziale e anche un filo snob (poco poco però), parafrasando Jannacci (l’ho visto qualche giorno fa in TV, un mito) ci sta bene una cosa così: ” quelli cui non interessa la luce contro e per questo scrivono in controluce…. Ohhhh yesssss”

Ecco, a quelli li, il mio grazie. Di cuore grazie.

BENVENUTI

Eccoci qui, nella nuova casa che ospita Controluce. Non sono brava ancora, ad editare, ma imparerò. Ci stiamo trasferendo, un po’ tutti. Marinz aveva già un blog parallelo, http://druidearyn.wordpress.com/ e sta aggiornando questo. Anche Calembour si sta dando da fare. Insieme abbiamo commentato la mancanza di informazione da parte di Spinder, che, bontà sua, ha pubblicato oggi un piccolo e stringatissimo annuncio.  C’erano anche le slides, in collegamento con l’album RIC.OR.DI, che io, pasticciona, ho ben pensato di perdere, cambiando template. Ma lo rimetteremo quanto prima, una volta deciso il vestito definitivo che chiamano, appunto, template. Ecco, non so fare altro. Non so cambiare i colori al testo, giustificarlo, ma non servono interventi estetici per dare a chi passerà di qua, il mio “benvenuto”. Mi sono portata dietro la porta, che apriva le stanze di Controluce su splinder. È la stessa, di legno, con assi inchiodate ma ben manutentata. Anche lo zerbino è lo stesso: un po’ consumato dai passi, ma è per questo che mi piace. Non lo cambierei mai con uno nuovo. La chiave, ovviamente, è sempre sotto lo zerbino. La teiera, di ghisa color verde salvia, è sempre sul fuoco e le tazze sapete bene, sono nella solita credenza. Eggià, perché anche gli arredi sono gli stessi. Essenziali ma solidi, per niente preziosi ma profumati di legno vero. Fuori, nel grande vaso,  c’è la solita pianta di limone: chi trova la terra un po’ secca è pregato di darle un po’ di acqua. Pieffe ci riesce benissimo, così come riesce a far spuntare belle margherite. Petula, il tuo quadrotto di terra con erba gatta c’è sempre, così  come c’è anche il davanzale. È stato un poco faticoso spostarlo, visto che è di serizzo, ma i gatti e le gatte non amano i cambiamenti per cui ho cercato di fare un trasloco il più indolore possible. Anche “La Lucertola” credo si troverà a suo agio. Ecco, credo di aver detto le cose principali. Buona serata a tutti e … mi raccomando, l’ultimo chiuda la porta!

LE MANI

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Ho sempre prestato particolare attenzione alle mani.
Le mani parlano, raccontano, dicono, svelano. Non solo per come sono fatte ma anche per come si muovono, toccano, afferrano, stringono, sorreggono.  Le mani dicono quanto gli occhi, e per certi versi svelano più cose.

Oggi in treno guardavo un uomo seduto davanti: aveva delle belle mani: interessanti, seducenti. Durante il viaggio riflettevo su quanto poco vengono usate oggi le mani per creare.
Le mani della mia famiglia sono state “il” lavoro: pensavo  alle mani di mio padre, a quelle del nonno. Mani abituate a stringere, piegare, montare, assemblare. Fare.
Pensavo al piacere di creare, plasmare, eliminare gli eccessi. Toccare.
La conquista di una forma,  la ricerca,  la carezza attenta che decide se è abbastanza liscia, morbida, tonda.  La cura per il dettaglio mentre la mente medita, concentrata nei pensieri, vicina alle cose più distanti. Libera di seguire un pensiero, un’idea mentre le mani seguono una forma. E la pazienza, la perseveranza, che trasformano un’idea in una forma.
A volte con fatica, senza che importi il risultato perché sarà comunque buono.

È la fatica che ci metti a rendere le cose uniche.

ECCOCI QUA-A

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Avevo  otto anni e non stavo molto bene: per parecchi mesi dovetti subire una cura farmacologica piuttosto pesante che mi permetteva a malapena di frequentare la scuola.

Il pomeriggio quindi non potevo giocare né andare in bicicletta come si faceva abitualmente tra compagni perché ero troppo stanca quindi anche molto sola.

Fu in quel periodo che mio padre un giorno che ero a letto con la febbre, entrò nella mia camera e mise  sul letto un oggetto fino a quel momento a me sconosciuto. Era un mangiadischi. Arancione, bellissimo. I bordi arrotondati, sembrava un disco volante .. ed era TUTTO MIO !!!

Entusiasmo ed eccitazione erano alle stelle: possedevo un oggetto tanto speciale e dopo pochi minuti sarei stata in grado di usarlo!

I dischi arrivati con il disco volante erano due, non musicali ma due avventure di Topo Gigio. “Topo Gigio va in soffitta” era uno dei due  45 giri,  “Topo Gigio va in città”,  l’altro. Bellissimi, le copertine lucide e colorate, con l’illustrazione di Topo Gigio ora con gli scarponi, ora tutto elegante con tanto di salopette.

Ricordo che quella sera i miei genitori dovettero minacciarmi per farmi cenare. Ovviamente la minaccia consisteva nella sottrazione del disco volante. Il ricatto funzionò: avrei mangiato una sedia, piuttosto!

Le ascoltai centinaia di volte le due storie,  tant’è che conservo dei ricordi piuttosto vivi. In una delle due storie,  il nostro Topo si trova, per una serie di coincidenze,  nella soffitta di un grande palazzo cittadino, disseminata di trappole per topi con relativo invitante nonché profumato groviera.

Con il passar del tempo e a forza di ascoltarlo, questo 45 giri si ruppe e fu una piccola tragedia. Si incantò ad un certo punto la voce di Topo Gigio e non fu possibile sentire la storia oltre il “eccoci qua a ….”

Sono passati molti anni, eppure ogni qualvolta sento dire: “eccoci qua”,  nella mia mente rieccheggia la vocetta un po’ tremolante di Topo Gigio esattamente nel punto in cui si blocca il disco e risento Topo Gigio  che recita “eccoci qua-a eccoci qua-a eccoci qua-a eccooci qua-a eccoci qua-a.

E mi rivedo nel mio lettino e ricordo l’emozione di quando mi fu posato sulle ginocchia quel meraviglioso disco volante colore arancione. Tutto per me.

CREDERE

Lo splendore dell’amicizia
non è la mano tesa
né il sorriso gentile
né la gioia della compagnia:
è l’ispirazione spirituale
quando scopriamo
che qualcuno crede in noi
ed è disposto a fidarsi di noi.

R.W. Emerson

Già. La fiducia. Una volta dissi a qualcuno: camminerei con te, bendata, sul bordo di un precipizio, perché so che mi condurresti in salvo, o che non faresti mai niente per salvare la tua vita e non la mia. Uscì dal cuore questa affermazione, senza la costruzione della  mente. Era uno di quei momenti speciali e si formò da sola questa immagine. Gliela consegnai, vestita di parole e  subito dopo, rileggendo le stesse parole  mi resi conto della portata. Potei solo confermarle. Lo pensavo allora, lo penso ancora.

Qualcuno che crede in noi, così come siamo, con le nostre debolezze, le nostre miserie, le nostre paure. Questa è l’amicizia, quella vera, potente, incondizionata e pura. E sì che splende. Come una stella. 

DIRITTI E ROVESCI

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Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
Articolo 27

«Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici.
Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.»

Una buona ragione per rompere questo semi-silenzio. Perchè non si può fare finta di niente.  

Wikipedia da oggi si è autocensurata per protesta contro la “legge bavaglio”.
La norma prevede l’obbligo «per tutti i siti web, giornali online, blog, di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine».  E … a decidere se i contenuti  siano realmente lesivi e se la parte offesa abbia diritto a richiedere la rettifica, non è un giudice terzo quindi soggetto imparziale bensì il soggetto che ritiene di essere danneggiato. Pertanto chiunque  si sentirà offeso da contenuti presenti nella rete, potrà arrogarsi il diritto  di chiedere una “rettifica”, volta a contraddire e smentire detti contenuti.

http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Comunicato_4_ottobre_2011

http://www.valigiablu.it/doc/541/diciamo-no-alla-legge-bavaglio.htm

Ricevo degli omaggi, per Controluce. Provvedo a pubblicarli sotto le zampette dell’uccellino celeste del post sottostante.  I messaggi, le e-mail, e i passaggi qui, fanno di questo sito un luogo tutt’altro che abbandonato o dimenticato! Grazie di cuore. 

E grazie a R. per  il collegamento con le slide 

CI FERMIAMO QUI

Controluce si ferma qui, almeno per un po’.

Ho sempre pensato che scrivere debba essere qualcosa fatto bene, curato nei dettagli,  e per farlo occorre tempo. Non intendo il tempo cronologico bensì quel respiro dentro il quale possono trovare fiato le idee, prendere forma i pensieri, vestire questi di parole. Devono essere spontanee, arrivare dal di dentro, senza forzature, sgorgare, fluire in modo naturale.

Il fuocherello dentro di me è sufficiente per poche cose, in questo tempo, e allora occorre fare delle scelte.  Tutto cio’ che non sono doveri e incombenze, ma che appartengono alla sfera del piacere, a maggior ragione meritano cura, attenzione e anche amore.

Questo angolo è stato una pausa caffè, un sorriso, un salotto molto speciale, motivo di scambio, di risate, di riflessioni. Motivo di incontri speciali che fanno e faranno parte della mia vita al di là di questo posto, ovviamente.
E’ stato un plaid, una coccola, una carezza. Spesso, una boccata di ossigeno e lo dico senza enfasi. Ci sono stati scambi, intelligenza, umorismo, dolcezza e anche i cazziatoni (Pieffe). Ho imparato, mi sono divertita e qualche volta ho anche pianto (!!!!!). Già.

Ma si “sente” quando qualcosa non ha piu’ il respiro giusto, il giusto colore, la giusta verve.
Tre anni e 83.320 visite (un numero quasi imbarazzante) bastano per dire: nessuna flebo!  Ho riletto qualche post passato: c’era piu’ sentimento, piu’ passione, c’era piu’ Ori.
Invece voi siete sempre stati vivacissimi anzi, il sito è vostro, già da un pezzo, e questa è la cosa che maggiormente mi piace e mi è piaciuta, fin da subito.

Ecco
Chiedo scusa se questo post è anche un po’ … patetico? Ma serve solo per avvisare che bè ….. diciamo che io mi prendo una pausa.   NON e’ un addio.

Avete tutti la mia e mail: se vi viene voglia di scrivere qualcosa basta inviare io copio, incollo e pubblico, molto molto  volentieri. E poi chissà, potrei commentare !!! Altrimenti resta qui, un po’ in frigorifero. So che da una terra bene arata nascono belle piantine. Accadrà.

A presto. Grazie.
Orietta

 

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..ooOOOoo..

ringrazio di cuore, copio e incollo.

da:   PINUCCIA – 18.09.2011

Sono passata da Controluce e mi sono goduta quelle due meravigliose margherite che haI donato a tutti noi. Anche se la vendemmia non è ancora finita, nei giorni di pausa ho giocato un po’ e ho messo giù queste piccole cose. Se pensi che vanno bene per Controluce mettile pure, se no cestina pure. Non farti scrupoli. Nel pomeriggio vado ad ascoltare una conferenza su Streghe, sibille tenuta da professori dell’università di Genova in un paesino qui vicino.    Credo sia un modo per dimostrarmi che mi voglio bene…ogni tanto ci si deve concedere qualche dolcetto.

Gli asparagi e l’immortalità dell’Anima

“Non c’è alcun rapporto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Quelli sono un legume appartenente alla famiglia delle asparagine, credo, ottimo lessato e condito con olio, aceto, sale e pepe. Alcuni preferiscono il limone all’aceto; anche eccellente è l’asparago cotto col burro e condito con formaggio parmigiano. Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo.

L’immortalità dell’anima, invece, è una questione; questione, occorre aggiungere, che da secoli affatica le menti dei filosofi. Inoltre gli asparagi si mangiano, mentre l’immortalità dell’anima no. Questa, insomma, appartiene al mondo delle idee. Naturalmente, nel caso in esame, all’idea corrisponde un fatto. Da questo punto di vista si può dire che l’immortalità dell’anima è una qualità dell’anima, una proprietà peculiare dell’anima, un concetto insomma, il quale indica il fatto che le anime sono immortali. Siamo sempre ben lontani dagli asparagi.”……

(Achille Campanile : Gli asparagi e l’immortalità dell’Anima)

Gli Asparagi e l’immortalità dell’Anima è stato il primo libro che mi sono comprata quando ho preso il mio primo stipendio dall’azienda in cui lavoravo. Avevo scelto quel libro come un regalo per me. Un regalo che mi rasserenasse nei momenti bui che è ovvio succedono nella vita Mi piaceva l’idea che due cose inconciliabili trovassero il modo di fondersi e potessero originare qualcosa di bello .

A me Achille Campanile piace. I ragionamenti che fa e che possono sembrare strampalati, in realtà raccontano un mondo gentile, arguto, surreale, mai volgare.
A volte succede che con una frase, messa lì con nonchalance, faccia comprendere che la vita è leggerezza, è gioco, gioco serio. Ma è un gioco.

Qui a casa di Celeste si fa un po’ il gioco degli asparagi: si passa da cose serie a cose giocose.
Comprendiamo tutti il suo bisogno di silenzio, di raccogliere le forze. Sono del parere che dobbiamo darle una mano: lei ci ha confortati, ci ha stupiti, ci ha commossi con i suoi post, ci ha sedotti con le sue foto.

Mettere giù qualcosa mi sembra un modo per ringraziarla della sua ospitalità.
E ricordarle che la stima per lei è immutata.

Coraggio siori e siore venghino. Mi scuso per non essere brava a scrivere come tutti voi qui.
Pinuccia.

 


DA ANDREA, SETTEMBRE 2011   –  copio e incollo (grazie A.)

Michele,  Michele e Michele erano nati in un villaggio nebbioso di quelli in cui nelle sere d’inverno si cucinavano lunghissime minestre di miglio. Dall’infanzia erano sempre stati amici e, come in tutte le infanzie nascono le uniche promesse che vengono mantenute, anche nel loro caso così avvenne.

– Andremo ognuno per la propria strada – dissero, e in un giorno caldo ci troveremo in un morbido campo di grano e ci racconteremo le storie che avremo imparato.

Michele andò verso nord-est, a conoscere i freddi, le piane ventose e i grandi maghi dell’oriente.
Michele andò a nord-ovest, sperando di trovare il Sacro Graal ma finendo per deliziarsi tra i vini e gli amplessi.
Michele invece freddoloso e sereno, andò a sud, dalla gazzella attenta.

Ascoltarono tante storie, vissero ognuno un proprio sogno.
Una volta arrivati caminarono in spirali sempre più larghe, per essere sicuri che nulla sarebbe sfuggito loro.

Era un luglio di tanto tempo dopo, ognuno arrivò ad un bel campo di grano morbido.

Decisero di tracciare una mappa dei propri percorsi, che erano per altro identici.
Unendo le tre mappe formarono un simbolo che riusciva a riepilogare gli aspetti importanti: la separazione, il viaggio, il ritorno e il gusto del racconto.

Lo chiamarono tris-chele.

CONTRARIA-MENTE

Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita, come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro…  Ci sono cose che il tempo non può accomodare … ferite talmente profonde che lasciano un segno.

(Frodo Baggins)

Eppure si fa. Non solo si va avanti ma certe mattine, senti che sei contento di esserci.
Magari non c’è il cielo azzurro, non hai appena fatto un sogno tutto blu, dove tutto era blu, i muri, i pensieri erano blu, le luci erano blu. E non suonano nemmeno le campane della domenica, non cantano gli uccelli. Anzi, magari il cielo è grigio e gonfio, tumefatto, gioallognolo. Eppure ti alzi, scendi dal letto, ti infili sotto la doccia e sorridi.  Respiri all’unisono con la mattina, non importa se di pioggia o di sole.

Altre mattine invece la sensazione è quella di avere cento chili sopra il petto. Manca l’aria, fatichi a respirare. Magari non hai nemmeno avuto quel sogno che ricorre spesso: tu che cerchi di correre perché devi farlo, ma le gambe sono pesantissime e per quanto estenuante sia l’impegno, riesci solo a fare pochi passi. Eppure ti infili sotto la doccia e ti chiedi perché lo fai, ti dirigi al lavoro e ti chiedi perché lo fai.

Siamo fatti male..

Occorre tenere acceso quel fuoco che abbiamo dentro, perché ci accoglie quando rientriamo dopo  la tempesta, coperti di lividi e colmi di dolore. Prendersi cura della “casa” di dentro, tenere acceso quel fuoco è importante. E poi si può uscire. Tante volte la tempesta è passata, e c’è il sole.  Altre volte magari no.

C’è gioia senza sofferenza?  Quanto è netto il confine?

****

Ieri ho finito di guardare Il Signore degli Anelli. No, non avevo visto il film. L’ho fatto in questi giorni. Mi hanno colpito tante cose: è un film che fa riflettere. Il bene e il male. Cosa è bene, cosa è male? Gollum Smeagol è forse il solo personaggio “vero” del film, l’unico che incarna l’essenza di ogni essere vivente? In bilico tra il bene e il male, eroe e vittima. È lui che raccoglie pietà, compassione, ribrezzo.  È lui che permette la salvezza degli uomini, e il trionfo del Bene.
Film denso di metafore, di analogie, di sentimenti contrapposti. Amicizia, solidarietà, feldetà, umiltà.

Io non posso portare l’anello per Voi, dice Sam a Frodo, però posso portare Voi.

E poi odio, tradimento.  Ma quanto netti sono i confini?

Bene – Male
Bianco – Nero
Odio – Amore
Luce – buio

IMMAGINANDO

una lucia

Oggi vedevo un tramonto sul lago,
Dal crepuscolo in poi, fino al momento in cui il sole si spegne.
Ero allo studio, per cui lo vedevo con la mente.

Sentivo l’odore dell’alga che si sente quando l’aria della sera si fa pesante e si
sposa con il fiato del lago.

Vedevo la luce, la mezza luce, il controluce, e poi il velo della sera.
Sentivo i miei passi lenti scompigliare il ghiaino delle piccole spiagge,
le narici allargarsi e accogliere l’aria.

Pace. Pace con il mondo, pace con me, tregua con i miei problemi.
Pausa per la mia testa.

La luna che si specchia, le lucine danzanti come stelline sull’acqua.
Silenzio, pace, respiro.

È durato pochi istanti ma in quel momento aveva un senso solo essere li, davanti al lago.
E che tutto ciò che vedevo, sentivo, respiravo era una sensazione di appartenenza.
Io, il lago, la notte, la luna, le stelle eravamo tutt’uno.

Tornando a casa, in treno, pensavo che il lago, le montagne, la sera e il suo odore,
la notte che si avvicinava, le luci dei piccoli paesi che immaginavo accendersi e disegnare il profilo della riva, era armonia, e che il mio quotidiano è  … innaturale.
Il mio ritmo, il mio respiro, il mio vivere di corsa è innaturale. 

 

angolo lariano

 le foto sono mie, scorci lariani

reti (per pensieri)

PRESSIONE BASSISSIMA

Imposta patrimoniale
Aumento IRPEF aumento IVA
Aumento dei treni (venti per cento)

Ottantamila auto blu, sessantamila grigie.
Cassa integrazione, disoccupazione.
Politici (da sempre) corrotti mafiosi ladri e puttanieri.
Sinistra destra sinistra destra.

Siamo un Paese alla frutta. Anzi, in coma.
Con un braccio attaccato ad una macchina che anch’essa sta per morire
Con l’altro braccio attaccato a sanguisughe che succhiano ciò che entra dal primo.
La preoccupazione è ormai paura.
Non per un futuro incerto, bensì troppo certo.

Però siamo in Libia. Ecchecazzo … potevano non esserci?
Vuoi mettere? DECISIVO il “nostro” intervento!!!

Pensiero di tante mattine: andare via. Fare le valigie e andare via.

Ecco. Fine della retorica celestescura. Un post che non mancava proprio per niente.

Avvertenze
l’ascolto del video è sconsigliato nei casi di depressione anche moderata.
Del resto le stessa che valgono per TG, giornali ecc ecc.

Vantaggi
Non serve vomitare a comando. Viene naturale.

TIEMPO

sfoglia(foto mia)

El tiempo es la sustancia de que estoy hecho.
El tiempo es un rio que me arrebata, pero yo soy el rio;
es un tigre que me destroza, pero yo soy el tigre;
es un fuego que me consume, pero yo soy el fuego.

Jorge Luis Borges

Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.
Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume;
è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre;
è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.

 


Non ricordare il giorno trascorso
e non perderti in lacrime sul domani che viene: su passato e futuro non far fondamento
vivi dell'oggi e non perdere al vento la vita.
(Omar Ḫayyām)

PENSIERI SUL PONTE

Se dovesse tornare quel tempo forse ti porterei via con me, lontano da qua, dalle cose che sono diventate ferite. Ti starei accanto in un altro modo, e forse rideremmo di più per tutte le cose.

Sento i tuoi anni e conosco la tua età, e adesso anche i pensieri perché  qualcuno è diventato mio.

Forse alcuni li hai depositati su di me, come uova invisibili perché attendessero il tempo necessario per schiudersi:  è un volo leggero, aria parlante, note che hanno raggiunto le mie e finalmente si è scritto il canto che adesso posso leggere anche io. Era sfasato il tuo tempo con il mio, menti poco allineate, separate dell’età. Cristalli di ghiaccio capaci di lasciar passare la luce ma poco altro: gli anni tra i tuoi e i miei.

Conservo la carezza sulla fronte, il ricordo del bacio della buonanotte, e l’idea vaga di qualche mattina di Natale, che hai voluto che anche per me fosse un giorno speciale.

Conservo il dolore, dentro fiale di vetro trasparente,  infrangibile, credo. Si usa solo cristallo sottile per dolori definitivi. Lo conservo in un posto che è solo mio, dentro il quale nessuno potrebbe mai arrivare perché c’è un corridoio lungo e poi una porta che non si aprirebbe, nemmeno se io volessi.

Conservo l’immagine delle  gocce trasparenti che sono scese, nessuna uguale all’altra, eppure   sembravano gemelle, perle cadenti da bottiglie appese: ognuna una speranza, una luce che cadeva nella medesima  pozzanghera  di un misterioso destino, coperto di parole troppo difficili da comprendere e da occhi troppo sfuggenti per non tradire verità o per tradire ipocrisie. Un pozzo di incertezze e di domande appese all’albero dell’illusione come palline di natale come bolle di sapone, ognuna con il filo di naylon di mezze bugie o mezze verità che sono certezze, le une come le altre.

Resta, resta, resta, resta, resta:  le gocce cadevano e diventavano un mantra.

Recitato a  nessuno: cielo sordo e buio denso, mai bucato da suoni o silenzi o lampi di luce.

Difficile è comunicare con il cielo, più facile è farlo con la pelle e il fiato.

Se dovesse tornare quel tempo saprei cosa fare ma temo che  il tempo farebbe le stesse cose. Pioverebbe di pioggia dentro il  vetro, e si raccoglierebbe dentro la stessa pozza. Briciole di tempo liquido, inutilmente liquido.

Se dovesse tornare quel tempo, però adesso leggerei i pensieri e i tuoi sogni senza ritardo.  Sono in ritardo di anni nel leggerti.   In ritardo di anni.

Arcobaleni immaginari, talvolta in bianco e nero, avvolti in parte nella nebbia, sono i ponti sopra i quali scivolano i pensieri rivolti a te: a volte gioco a tennis con loro, gioco sempre da sola.

Ma se qualche volta tu vorrai esserci, dall’altra parte del ponte, prova a rispondere: forse il tempo adesso è più corto, il ponte più breve. 

Diritti riservati

ISTANTI

 arance

(foto mia . Dubrovnik, estate 2009)
 

A cosa serve una grande profondità di campo
se non c è un'adeguata profondità di sentimento?
(Eugene Smith)

Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare,
tre concetti che riassumono l' arte della fotografia.
(Helmut Newton)

Non bisognerebbe mai giudicare un fotografo dal tipo di pellicola che usa,
ma solo da come la usa.

(Ernst Haas)
 

Non esiste la fotografia artistica.
Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere
e altre che non sanno nemmeno guardare.
(Nadar)

Attrezzatura e tecnica sono solo l' inizio. È il fotografo che conta più di tutto.
(John Hedgecoe)

E un illusione che le foto si facciano con la macchina…
si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa.
(Henri Cartier-Bresson)

 

Sono aforismi sulla fotografia. Secondo me trovano analogie con l'amore, per esempio. (A cosa serve una grande profondità di campo se non c è un'adeguata profondità di sentimento?)

non è un elefantino?

ELEFANTINO    (foto mia. HR estate 2010)
 

Ma a parte questa riflessione, la fotografia è una sfida al tempo. Non so fare foto, non ho fatto alcun corso, non conosco tecniche né trucchi, ma mi piace farne.
Ogni volta che scatto una fotografia è questo che io penso: al fiore, all'insetto, al tramonto, alla nuvola dico:  fermo questo istante perché  tu possa restare ed io rivederti ancora.  È il tentativo di fermare un'emozione, qualcosa che non si ripeterà.

Eppure mentre guardi un tramonto, un'alba, il volo di un uccello, un lampo nel cielo e ti fermi per scattare una fotografia, quella emozione la perdi, la perdi per sempre.
Non puoi assaporarla, goderla, perché tra te e "lei" c'è l'obiettivo e c'è la mente che deve lavorare, inquadrare, valutare. Per questo mi è capitato di rinunciare a fermare istanti che sapevo brevi. Sono fotografati dentro, non condivisibili, miei, intatti nella memoria. Come lo sono le cose non fotografabili, come un bacio, una carezza, un respiro, un brivido. Sono miei, miei e basta.

C'è chi trova triste la fotografia, quasi un patetico tentativo di mantenere in vita ciò che vive un giorno, come un fiore. È capitato anche a me di pensarlo, ma poi scatta quel click con il mio ditino. E quella luna, quel lago, quel pontile davanti a quel cielo che sanguina, li posso rivedere ma anche regalare.

 bambi

(foto mia, Canada 2008)

POESCIENZA

http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/07/31/news/voyager_1_nell_universo-19830718/

Ho letto l’articolo, ho titolato il post, ho pubblicato la foto e il link e anche ho scritto qualcosa.
Poi ho cancellato. Ho cercato di riscrivere altro due giorni dopo ma .. a volte le parole le devi frustare.
Ha scritto Riccardo (giuro che non lo pago, e lui lo sa).  Ricevo, dunque, e copio-incollo
(per la serie: ma devo fare sempre tutto io? 🙂 

celestepigraeanchestanca
ps: mi sento tanto giornalista “riceviamo-e-volentieri-pubblichiamo”:-)


Pesante?
Eh. Si.
Perché?
Eh, perché. Bella domanda. Perché.

L’avvenimento che quel simpaticone barbuto di Zucconi è che in questi giorni, la sonda americana Voyager-1, obsoleta da tempo, ha lasciato l’eliosfera.

Ma daaaaaaaaaaai!!! Davveeeeeero??? Graaaaande!!!
Traducendo in italiano: “hm, devo rifarmi lo smalto alle unghie”
In dialetto: “chissà quest’anno chi prende l’Inter?”
In codice Morse: …—– …. — – .-…-…-.-.-..–. – .. -…. — .. – .. — .. – .  ossia: “devo tornare a casa a farmi crescere i capelli”

Ah ok. Quindi è questo, il pesante.
Anche, forse, ma non mi riferivo proprio a questo.

Allora: Voyager 1 è una delle mille sonde mandate negli anni a giro per lo spazio.
Il loro fascino, al tempo attuale è praticamente svanito. Sono così tante che, parlando di quelle che sono nell’orbita terrestre, si comincia a parlare di inquinamento…
La “Conquista dello Spazio”è un mito che ha quarant’anni, e da tempo “non vende più”…

Ogni tanto si sente di qualcuna di queste sonde che raggiunge qualcosa, facendo qualcos’altro.
Tutto molto scontato e …noioso. Sono interessanti solo quando succede un incidente, allora, come quando succede sull’autostrada, tutti si fermano a guardare (e spesso diventano degli ineffabili e rodati esperti di propulsione aerospaziale, con laurea conseguita presso la rinomata università  “Bar Mario”).

Quindi che ci frega di Voyager?
Anche nulla, e credo sarebbe la cosa più sana, pratica, da dire.
O, viceversa si può pensare che ci sia tanta di quella roba da farsi montare le lacrime, e pensare, tra sè e sè, un “buon viaggio”.

L’eliosfera, come racconta Zucconi, è quella specie di culla che contiene il sistema solare, la zona dentro la quale il Sole fa sentire i suoi effetti, e dove questo è stato capace di costruire come minimo tutto quello che ci circonda (che i creazionisti si tappino gli orecchi pls). E’ quello che comunemente viene chiamato “sistema solare”.

E noi parliamo di “infinito” e roba così, ma fino a ieri (o meglio, al giugno ‘10), fino a che questo nostro emissario meccanico ci arrivasse, non sapevamo nemmeno cosa ci fosse “all’uscio di casa”, subito fuori appunto, dal sistema solare “questo angoletto di Universo del quale noi ci crediamo il centro, per avventurarsi dentro la Via Lattea, la nostra galassia, dentro la quale stiamo in proporzione come una moneta da dieci centesimi caduta nel territorio della Francia”

Il fascino, in parte ritrovato, per alcuni mai nemmeno sbiadito, è che Voyager 1 è l’oggetto più lontano creato dall’uomo, e si sta allontanando dal sistema solare a una velocità “folle” di 17,058 km al secondo.
Si sta dirigendo in direzione della costellazione dell’Ofiuco, ma in 33 anni non è arrivato che all’uscio di casa…  (che chissà poi come mai, pur essendo nel piano dell’eclittica, non è presente da nessuna parte nella simbologia dello zodiaco… Quindi nessun carattere particolare dei nati nell’Ofiuco, nessuna particolare sorte riservata loro dalle stelle, giovedì non sarà una giornata particolare in cui “La Luna in Ofiuco quest’oggi farà in modo che abbiate tutte le carte in regola per sedurre chiunque vi interessi. Il vostro charme e il vostro fascino, saranno veramente irresistibili. Inoltre sarete particolarmente propensi al dialogo e a fare nuove conoscenze.”
Si vede che quando scrivevano l’oroscopo avevano finito la pagina e l’Ofiuco non c’entrava più? Mah!.)

Ma … alla sua “folle velocità” gli ci vorranno circa 40.000 anni per “sfiorare”, ad una distanza di circa 1,6 anni luce, la stella AC+793888 (non ha nemmeno un nome, da tempo ormai, sono troppe per poter dare un nome a tutte….
Quindi, in realtà, va pianissimo, e le distanze sono enormemente superiori alle sue possibilità “in vita”, se non pensando che il suo viaggio abbia altri scopi e che possa durare qualche milione di anni…. non avendo significato dire “in eterno”.

E questa straordinaria avventura, anche un po’ infantile e tenera, col suo disco a 16 giri che racconta dell’uomo, della terra e della sua civiltà, chissà come poi, ci fa toccare con mano, per la prima volta fisicamente e non speculativamente, quanto enorme possa essere quello che ci circonda, sia come spazio, sia come tempo.
E come sia assolutamente ridicolo (creazionisti: assumere la configurazione precedente please!) pensare di essere noi, e le nostre tre cose che ci portiamo appresso, in qualunque modo considerarci il centro dell’Universo, come dice Zucconi nell’articolo.

Voyager 1 funzionerà fino al 2025, quando avrà raggiunto oltre 25 miliardi di chilometri di distanza dalla Terra, poi continuerà il suo viaggio.
Da parte mia i migliori auguri di buon viaggio, e… mettiti la maglia di lana!

Riccardo

NONNA UCCIA

Un abbraccio a Fabrizia da me, ma anche a nome di tutta Controluce.
Ieri Fabrizia (la conoscete come Sir Biss) ha perso la sua mamma.
Questo spazio non può non somigliarmi, quindi sono disabilitati i commenti: io so, perchè li conosco, gli amici di qui, avranno un pensiero, una preghiera.
Per questo voglio proteggere questo silenzio che qualche viandante di passaggio potrebbe spezzare.
O.

POST PER UN GIORNO


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Qualcuno mi ha chiesto, nel corso di questi anni come si possa amare un lavoro come il mio o comunque come possa amarlo io.
Sulla brochure che ho fatto un paio di anni fa, sotto il logo ho scritto “La legge è ragione senza passione” (Aristotele).
È vero, è così. La legge non comprende passione, è ragione, niente altro. Applicazione di codici e procedure. Solo questo.
Me lo sono domandato anche io, nel corso di tutti questi anni come si possa amare un mestiere così e la riposta è stata la stessa, per anni: non lo so ma  si può amare anche un lavoro fatto di numeri, di bilanci, di rendicontazioni. Di verbali, di atti e patti societari, di conferimenti, di contratti, di ristrutturazioni aziendali, di burocrazia di formalità, di ricorsi, di procedure, di normative. Di relazioni, report, previsioni.
Fatto di disposizioni che cambiano, a volte all’ultimo momento. Di decreti, di leggine, leggette spesso nebulose. Ho sempre detto una cosa: se affidi i conti della tua azienda a 10 studi differenti avrai 10 bilanci differenti. Stride, con quanto sorpa, eppure è così: anche in questo mestiere ci sono controversie, contraddizioni, punti di vista, opinioni.  Finanza creativa a parte, che è molto di moda di questi tempi.
Si può amare tutto quando c’è l’impegno e lo spirito del gruppo, la solidarietà, l’armonia tra le persone, e la voglia di fare, ciascuno, ciò che meglio sa fare, tutti per un fine comune.
Per il lavoro di squadra non è sufficiente la competenza professionale: occorre la capacità di poter vedere oltre, di possedere quella in studio chiamiamo “visione di insieme”. Occorre l’impegno e la voglia di fare bene qualunque cosa sia, anche una fotocopia, un fax. Occorre un credo, per tutte le cose.
Strano? Forse. Ma non per me. Per me la cosa davvero strana è sentirmi “fuori” da una costruzione lenta, durata 27 anni. Mi sento fuori con la testa, mi sento fuori con il cuore.
Chi mi conosce sa quando siano stati difficili e dolorosi questi ultimi 18 mesi, sa delle notti in bianco, della rabbia, della delusione, profonda, dolorosa anche.
Ma la vita è anche questa. Ci sono storie che si rompono per sempre. Mi sono sentita dire più volte “è solo lavoro“. Non è solo lavoro, non può essere mai “solo lavoro”: è una storia di persone, di momenti condivisi, di scelte, di aiuti reciproci, di soddisfazioni e di delusioni condivise.
A volte anche di arrabbiature, di tensioni: questo è un lavoro denso di scadenze, scandito dal calendario tributario e fiscale, i giorni hanno il colore del Sole ….. 24Ore.
Già. Eppure è una lacerazione. Lacrime, rabbia, lividi.
E ti giri e vedi un castello di carta che crolla sotto la forza di un vento molto meno forte di altri venti che pure hanno soffiato ma che hanno trovato resistenza e i castelli non sono crollati mai del tutto.
Questa è la rabbia vera. Ma poi lo sai, perché lo sai dentro che non è un fallimento vero e soprattutto non è un fallimento tuo. Solo  qualcosa che succede. Fa male, fa un male cane perché una grande parte del tempo della tua vita è come se si svuotasse e cedesse, davanti a scelte ottuse.  Non ci stai più, non è più un vestito, non è più casa, non riconosci più le pareti, l’odore, le cose.
In un pugno di mesi tutto diventa impersonale: il PC svuotato di ogni cosa che lo rendeva tuo, le pareti, gli oggetti. La tua corrispondenza non arriva più in studio e lo studio smette di essere un’appendice dello studiolo di casa tua.
Succede. Basta lacrime. Settembre è domani, con tante incognite e incertezze. E paura anche.
Un dialogo  forse ancora aperto, qualche compromesso. Vedere le cose da altre prospettive. Si, è possibile.  Ma forse è il momento di cambiare. Bisogna trovare il coraggio di chiudere la porta quando le cose non ci somigliano più. Non lo so, davvero non lo so cosa accadrà a settembre. Ma so che a volte capitano cose che aprono gli occhi e chiudono il cuore. Forse era ora di fare entrambe le cose.
È un post per un giorno. Domani lo cambiamo.

DUBBIO DI BOBBIO


Mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo

Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. (…)

Io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’ uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamenale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità

La mia è una religiosità del dubbio, anziché delle risposte certe. Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi mentre, volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine. Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere. Qualsiasi scienziato ti dirà che più sa e più scopre di non sapere. Credevano di sapere di più gli antichi, che non sapevano niente al confronto di quello che sappiamo noi.

Abbiamo allargato enormemente lo spazio della nostra conoscenza, ma più lo allarghiamo più ci rendiamo conto che questo spazio è grande. Cos’ è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all’essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non per fede. (…).

E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta – perché di questo sono certo: non posso dare una riposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi – mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole. Probabilmente dipende dalla mia incapacità di andare al di là. Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata.

E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere.  Resto uomo della mia ragione limitata – e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo “la mia religiosità”.

Norberto Bobbio, La Repubblica” 30 aprile 2000

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000430e.htm#inizio

ROSA DEL VENTO

Se te podet fermess che
che in due’ tira’l veent i niguj g’ hann poca memoria
ma l’erba resta in due l’è
Se te podet fermess che
anca se la tèra la gula, anca se l’oecc el te sbrüüsa
fermess che
perché me cugnussi mea una rösa
in grado de sgraffignà’l veent
perché me cugnussi menga un veent
che desmentega una rösa

Se puoi fermati qui
che dove tira vento le nuvole hanno poca memoria
ma l’erba resta dov’è
Se puoi fermati qui
anche se la terra vola, anche se l’occhio ti brucia
fermati qui
Perché io non conosco mica una rosa
in grado di graffiare il vento
perché non conosco nemmeno un vento
che dimentica una rosa

Davide Van de Sfroos – Rosa del Vento,  da “Yanez”
Traduzione: mia

foto mia

ALBERI

Vi  ho fatto vedere, o no, i disegni che faccio adesso per imparare a rappresentare un albero, gli alberi?
Come se non avessi mai visto, mai disegnato, un albero. 
Dalla mia finestra ne vedo uno. Devo con pazienza capire come si costruisce la massa dell’albero, poi l’albero stesso, il tronco, i rami, le foglie. Prima di tutto i rami che si dispongono simmetricamente, su un solo piano. Poi il modo in cui i rami girano, passano davanti al tronco.

Non fraintendetemi: non voglio dire che, vedendo l’albero dalla mia finestra, lavoro per copiarlo. L’albero è anche tutto un insieme di effetti che l’albero causa in me. Non è questione di disegnare un albero come lo sto vedendo. Ho davanti a me un oggetto che esercita sul mio spirito un’azione, non soltanto come albero, ma anche in rapporto a ogni sorta d’altri sentimenti.

In auto non si dovrebbe andare a più di cinque chilometri l’ora. Se no, non si sentono più gli alberi. Siete mai andato in bicicletta? Si. Ma un giorno mi ruppi il muso e mi ingessarono un piede.
Gustave Moreau mi chiese cosa m’era successo. Gli spiegai che usavo la bicicletta per andare verso la natura e fare dei paesaggi. Mi ribatté: si facevano dei bei paesaggi prima dell’invenzione della bicicletta.

Henry Matisse – Scritti e pensieri sull’arte.
foto dal web

Non mi piace particolarmente Matisse anzi diciamo che non mi piace quasi per niente. Ho trovato tempo fa questa cosa, e l’ho messa da parte. Ho una foresta di files, come tutti, nel mio pc. Cose trovate, link interessanti, cose scritte da me. Ogni tanto vado a rovistare dentro quasi sempre sapendo cosa sto cercando. Giro come un topolino tra fotografie e scritti, link, promemoria e appunti vari, scansioni di articoli o immagini. Nonostante sia un territorio sterminato e spettinato, ricordo quasi tutte le cose che vi ho messo e che attendono di essere lette, approfondite, utilizzate. È una specie di .. stavo per scrivere soffitta ma non è esatto. Non c’è nulla di polveroso, né di dimenticato. Ci sono solo cose che aspettano cura, o semplicemente di venire liberate dai confini della gabbietta che chiamiamo file per apparire magari qui sopra o per diventare un dono per qualcuno, motivo di condivisione.

Questo scritto di Matisse l’ho messo da parte perché l’albero, nella mia mente è un raccoglitore di segreti. È anche un libro, un albero. Un libro che ogni albero si scrive da sé: contiene anni, secoli di storia, trattiene odori, stagioni. Conserva la memoria di tutte le gelate, la polvere di aridi periodi, di stagioni crudeli. Eppure è immagine della mitezza. Emblema della resistenza.
Porta i segni di tutta la neve che è stata, è testimone di tutti i venti che sono passati,  della pioggia che frusta, disseta, lava e ristora.

È una pellicola: porta inciso il film del suo tempo, e del tempo del mondo. Affonda nella terra, terra che lo nutre mentre insieme digeriscono modificano e trasformano vita che serve ad altre vite.
Lo trovo un confidente saggio,  amico fidato che ascolta e trattiene. È affidabile, sincero, generoso. Uno che non ti tradisce, che si offre, e che ti accoglie sempre, non t respinge mai. Non lo fa mai un albero: un albero ti aspetta sempre.

“Non è questione di disegnare un albero come lo sto vedendo non solo come albero ma un oggetto che esercita sul mio spirito d’azione, non soltanto come albero ma anche in rapporto ad ogni sorta d’altri sentimenti“. dice Matisse e trovo il concetto interessante, bello anche. Ma terribile la definizione di “oggetto”: una parola inappropriata. Offensiva.
Un albero non è un oggetto, ma un essere vivente, un albero vive una vita piena, esattamente come un uomo: vive le stagioni anzi le segna, le anticipa, le subisce ma anche le asseconda. Lui è stagione, è mutamento, è ciclo, è vita, di cui è anche un maestro.
Testimone e protagonista del ciclo della vita, ponte tra terra e cielo.  Complesso e perfetto il sistema che lo irrora e lo nutre e lo cresce. Meravigliosamente forte e delicato al contempo. È come noi, un albero. In più puoi affidargli tutto: il tuo dolore, le tue miserie, puoi farti cullare, addormentarti appoggiato al suo busto. E ogni cosa sussurrata sotto un albero ha il sapore che hanno le cose speciali e sai che resta li, al sicuro dentro le sue rughe, sotto gli strati della sua pelle e che penetra e si fissa ai cerchi con i quali scrive il tempo. Lui il suo diario, ma anche quello di un pezzo di tempo, se lo scrive dentro. Lo puoi leggere, ma devi prima abbatterlo. Il suo alfabeto è fatto di cerchi. Ma se sai ascoltarto, sa anche parlarti.

Strano davvero che un pittore – e il mestiere del pittore è anche quello di rendere immortale un istante, fermare il mutamento – definisca oggetto un albero. Ma l’ho già detto prima che non mi piace Matisse.
Non mi importa, non mi è mai importato di leggere” un quadro. Ho sempre pensato che non ha senso farlo: un quadro ti tocca una o più corde oppure non lo fa, non lo farà mai. Semplice. Quindi, diversamente da chi ritiene che questo non sia fruire di un dipinto, io penso che l’anima di chi lo ha fatto arriva sulla pelle di chi osserva o non arriva. La testa non c’entra, a mio avviso. È come una poesia: se la devi spiegare vuol dire che non è arrivata.

Bella l’osservazione di Moreau: la lentezza permette di osservare. È stupefacente la quantità di cose che ci si perde viaggiando veloci e di quanti particolari ci stupiscono ripassando in bici oppure a piedi. Sempre che sappiamo guardare, aprire gli occhi ma anche il cuore, naturalmente.

compagni

Questa è una foto mia: è titolata “compagni”. Io ci vedo due compagni
che scrutano il lago in silenzio.
Si tengono per mano. Oggetti? Mah!

PENSIERO ULTIMO


E' questo il difetto delle parole.
Stabiliamo che non c'è altro mezzo d'intenderci e di spiegarci, e finiamo con lo scoprire che restiamo a metà della spiegazione e così lontani dal comprenderci che sarebbe stato molto meglio lasciare agli occhi e al gesto il loro peso di silenzio.
Forse anche il gesto è un di più. In fin de conti, non è altro che il disegno di una parola, il muoversi di una frase nello spazio. 
Ci restano gli occhi e il loro accesso privilegiato alle apparizioni".

Josè Saramago – Di questo mondo e degli altri

COLORA-MI

NAVIGAZIONE MILANO LINEA 1-033

 foto: http://www.flickr.com/photos/40617467@N04/
 

Marinz nel suo ultimo post parla di Milano: quasi tutti i post di Marinz contengono Milano, lui vive Milano davvero, ne segue le stagioni, le manifestazioni, partecipa a molte iniziative e conosce Milano dal centro alla periferia, conosce gli angoli, tutti, quelli acuti e quelli ottusi.

Qui ha parlato dei colori di Milano. I colori contribuiscono al volto di una città. Penso al giallo Milano, che non è la Chinatown meneghina di Paolo Sarpi,  e nemmeno il risotto alla milanese che pure è giallo, ma il colore tipico delle case di Milano, così diffuso, da conquistarsi una nuance: Giallo Milano, appunto.

Un tempo molto più diffuso: vestiva le caserme, gli edifici pubblici ma anche meravigliosi palazzi signorili, come le case  di ringhiera che si affacciano sui Navigli . un  giallo democratico, insomma. Comunque ancora molto presente e, ultimamente, rispolverato dal desiderio di tradizione, dalla voglia di retrò che forse è anche fisiologica, o semplicemente una scelta dopo la fine e il fallimento delle idee “nuove” e l’omologazione che cancella ogni tratto somatico e sottrae carattere e memoria a tutto.


Sono Giallo Milano le BikeMi, le oltre mille biciclette pubbliche del servizio di bike sharing della città e indosseranno di nuovo l’abito giallo tutti i tram. I tram, insieme al Duomo, alla Madonnina, al panettone e al risotto, sono il simbolo della città.

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Alcuni dei tram storici sono di colore verde, come le vedovelle: molte case sono di colore rosa antico o rosso.  E poi c’è anche il grigio, certo, come c’è in tutte le città.
Milano si porta addosso la nomea di città grigia, immersa dentro il bicchiere di acqua e orzata di Paolo Conte, ma non è così.

Il Duomo, da molti anni tenuto costantemente pulito dallo smog sfoggia un bianco luminoso che splende sotto il sole  mostrando sfumature di un bellissimo rosa. E il cielo a Milano non è affatto vero che è sempre grigio: sa essere turchese e celeste e blu.
Sa perfino mostrare le stelle, Milano, io le ho viste da poco e non c’era alcun black out.

Vorrei che insieme al giallo tornassero le trattorie, quelle vere, diverse da quelle per fricchettoni e turisti, e che Panarello (che è genovese) non smettesse mai di fare i cannoncini così come li fa dal 1930. Ma queste sono piccole cose: io vorrei che Milano ritrovasse il suo giallo e che insieme alle pennellate su case e tram, le venisse restituita la sua identità, la sua musica, il suo respiro ma soprattutto vorrei che non perdesse  il suo cuore. Quasi tutti lo hanno sentito dire che Milano ha un cuore grande ma non tutti sanno quanto.

Suggerisco di fare una visita qui:  si resta incantati dalla bellezza dei Navigli.  Altro che grigio!

http://www.flickr.com/apps/slideshow/show.swf?v=104087 

Per finire: un po’ di Milano in bianco-nero.

E20

  
 

“Accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni e poi la vita risponde” Alessandro Baricco, Castelli di rabbia.

Trovo affascinante, cuorioso, interessamte questo concetto: ho parlato diverse volte anche qui, in Controluce, dei fili che legano eventi e persone. A volte legami potenti, determinati da fatti banali.

A volte invece sembra che ci siano stati cuciti addosso come abiti su misura, come tessere mancanti del puzzle che siamo, come fili della ragnatela che ogni giorno costruiamo, perfezioniamo, rafforziamo, ripariamo e che ci collega con gli altri, con l’universo, che permette scambi e relazioni. Che consente trasmissioni, interferenze, interazioni, empatie. Legami.

Succede quando accadono quelle cose che  sembrano disegni, schemi, cose che dovevano accadere. Momenti che pare ci hanno sempre atteso e che abbiamo sempre aspettato e che arrivano quando il tempo è giusto, ma sembra quello sbagliato. Ma poi non è mai giusto e non è mai sbagliato. Accadono quando accadono, semplicemente.
 
Capita di sfiorare esistenze, che sfrecciano trasportate dal proprio tappeto, mentre noi attraversiamo il nostro tempo a bordo del nostro tappeto: ne sentiamo il fruscio, percepiamo l’odore, le avvertiamo sui peli come fossero aria, sono vicine, le possiamo annusare. Ci spettinano, passando, scompigliano le frange dei tappeti, come fa il vento e ci passano sulla pelle, gonfiando i nostri vestiti, come fa il vento.

E forse è mancato poco, forse è bastato poco: un pugno di tempo, una decisione rimandata, un treno non preso, una gita annullata, uno starnuto. Uno starnuto, una scarpa slacciata, le chiavi cadute per terra ed è passato il tappeto in un tempo diverso dal nostro. E certe volte è vero che ” al destino di certo, non manca il senso dell’umorismo”, come disse Morpheus a Neo in “Matrix”,
 
Sliding doors, un bel film: corri, ma la porta del metrò si chiude, perdi il treno per un pelo, e la tua vita ha un corso. La variabile: tu che corri, arriva il metrò, lo prendi al volo mentre le porte si chiudono e la tua vita ha un corso diverso perché seguono cose diverse, incontri diversi, perché arrivi in un posto in un tempo diverso dove stanno accadendo cose diverse.

Una terza variabile che però non è nel film: un certo metrò  non arriva, quindi non c’è nessuna porta che si apre né in tempo né fuori tempo: due persone restano dove sono e accadono cose che non sarebbero accadute se fosse arrivato un qualsiasi metrò. Insomma, eventi banali che determino eventi che ne determinano altri che tutti  insieme scrivono la tua storia. Strano, vero?

“Getta un sassi in un fiume e il mondo non sarà più uguale a prima”

“Basta il battito di una farfalla per sconvolgere il mondo”

Cosa accadrebbe ora, o domani, se io adesso fossi in riva al lago e non sul mio divano? E se fossi al cinema? A teatro? E se fossi in vacanza a Praga? Avrei incontrato qualcuno se non avessi letto mai Il Piccolo Principe, oppure se oggi avessi mangiato una pizza invece del gelato?

A volte sono odori speciali che ti passano accanto, mani che tocchi senza toccare, fiato che senti nel fiato per qualche istante.  A volte qualcuno o qualcosa arriva, inaspettatamente, senza averlo cercato, deciso, voluto. E ti accorgi che era tutto ciò che serviva, che non poteva non arrivare perché non era mai mancato così tanto prima di quel momento.  E che una “banale” coincidenza ti ha offerto, per un po’, una impagabile felicità.

Accadono cose che sono come domande: Il Piccolo Principe ha  viaggiato, e trovato risposte, soprattutto che l’essenziale è invisibile agli occhi. E io penso che abbia ragione. Non servono gli occhi servono il cuore, l’immaginazione. Serve leggere oltre. Oltre.

PONTILI

orizzonti paralleli

foto mia

Mi hanno affascinata sempre i ponti, come mi sono sempre piaciuti i pontili, specie al tramonto.
Sanno di riflessione, i  pontili davanti ai tramonti, segnano per bene l’orizzonte,  invitano al viaggio, e anche il sole, al tramonto  rassicura: non ferisce gli occhi, e diventa presenza che attende, calda e quieta. Raggiungibile. Un punto fermo ma vivo che ha smorzato arroganza e ferocia dentro l’acqua che, per mestiere, da  sempre accoglie e disperde oppure conserva.

Quando mia mamma lasciò i suoi giorni e tutti quanti i miei, pensai a un pontile: per giorni  lo vidi nella mente e guardai la sua sagoma percorrerlo, a piedi nudi, con lentezza  e sicurezza.
In alcuni sogni lei era a metà del ponte, reggendo in mano un sacchetto di sabbia. Forse la sabbia è quella del Tempo. La sua clessidra si era fermata, e magicamente per un po’ fece la stessa cosa anche la mia. Forse era tempo restituito, un credito di tempo del Tempo. Tempo sottratto al suo Tempo che lei si è portato via sé.
Non mi importa di saperlo: ho imparato che non saprò mai cos’è  il Tempo e nemmeno se esiste, e che qualcosa di me invece lo sa, ma non può dirmelo.

È così che vanno le cose. Alcuni episodi della vita sono pontili e noi lasciamo indietro pezzi di terra che ci hanno ospitato e cresciuto, percorriamo  un tragitto  segnando un passato di assi di legno inchiodate.

L’acqua di sotto è ferma, al tramonto. Dovrà aspettare la luna per ritrarsi e sollevarsi e rispondere alle chiamate nostalgiche di quel pezzo di terra appeso nel cielo: anche la luna  ha percorso un pontile ma non era sull’acqua: puntava nel cielo.
Lo ha fatto con un buco nel tempo e adesso è lassù, malinconica secondo i poeti, ma è possibile che sia stata una scelta. Riflessiva di certo e matura, antica, sapiente. Generosa, morbida, introversa, rassicurante. Padrona delle acque, delle piante e delle donne.
Controlla la talea di oggi, e il vino domani. Ha un del daffare ma è sempre puntuale e precisa, in tutte le cose della terra.

I pontili collegano osservazione e coscienza, immersi  come sono nella riflessione di un tempo che scorre diverso da come scorre prima dell’ asse che precede la  terra.
Non sempre hanno un tramonto davanti: a volte sono montagne e nessun mare, come quelli che stanno sui laghi. Sono orizzonti anche i monti, non meno importanti, sono solo diversi.

I pontili dei laghi ospitano  i fantasmi del fondo del lago, che hanno la tana tra le alghe nel  liquido denso dell’acqua.  Certe notti li puoi sentire passeggiare: i pontili scricchiolano sotto i loro passi e con la coda dell’occhio puoi vedere bagliori veloci che danzano sul nastro di legno teso tra il cielo e lo specchio del lago. Nascondono antiche storie che i fondali custodiscono e proteggono, segreti di montagne deposte sui fianchi  a far da casa e da sponda per  l’acqua, e segreti di popoli che hanno il lago come padre, amico, e come unico consiglio.

Sul pontile di questa notte fa freddo: c’è vento, un vento che spettina, grida si insinua senza tanto pudore a frugare tra le maglie del mio tempo.
Un vento per nulla signore,  piuttosto un giudice, un vento ispettore. Un vento asciutto, che asciuga.
Davanti c’è il sole calato, non più rovente ma serio, austero e grave, forse peché il cielo è in parte anche livido, striato color del vino.

Oltre al vento c’è quel silenzio che sanno fare solo alcune assenze. In compenso non vedo sagome che si allontanano  e non sono sicura dei fantasmi a parte quello che vive con me e che qualcuno dice che è uguale e me.

Mi chiedo quanti orizzonti avrà superato mia madre o se invece doveva farlo soltanto con uno. I pensieri si aggrovigliano come fanno le maglie delle reti color corallo,  che ho visto sulla minuscola spiaggia,  alla radice di questo ponte. Sbrogliarli è difficille: si attorcigliano ogni volta che ci provo.
Domani chissà, ci saranno pesci che penseranno i miei pensieri.

A differenza dei ponti, che collegano, i pontili si fermano, come una strada chiusa, come una frase che muore in gola. Come le parole pensate e non dette, come quel bacio nato nel cuore, incastrato tra i denti e mai dato.

Ci si ferma, sui pontili, e si pensa. Per andare avanti bisogna per forza cambiare mezzo: tuffarsi nell’acqua oppure una barca. Il ponte invece no, non ti avvisa nemmeno che sei già passato. Ti accorgi dal paesaggio e se giri  la testa per guardare indietro.

Mi domando se la gente scrive ancora cartoline: me lo domando sempre quando vedo nelle piazzette turistiche le colonnine girevoli con le cartoline. Ne ho viste tante,  con il pontile in controluce. Anche questa è una cartolina con un pontile  in Controluce. Anzi, sono io che cammino sopra un pontile, in Controluce.

E qui sopra questo, continua a far freddo e le parole di ieri non si disperdono nonostante il vento ed io ho spesso un foulard con me, specie quando non serve .
Ci sono cose che si sapranno soltanto domani, e ci sono bicchieri amari che vanno ingoiati, si sa. Sono liquidi densi più densi dell’acqua del lago. Sciroppi. E la vita sa costruire bicchieri tanto grandi specie se la lasci fare per anni.

Non bisognerebbe permettere alla vita di costruire bicchieri tanto grandi, mentre invece vanno bene i pontili lunghi. Lì si cammina sopra il tempo che serve per pensare, e da lì si capisce quali tramonti si possono catturare e magari collezionare.  E che dentro qualcuno si può perfino nuotare.

AMARPOST

Ma vanno così le cose della vita: uno pensa di recitare la sua parte in uno spettacolo e nemmeno si immagina che sul palcoscenico nel frattempo, di soppiatto, hanno cambiato lo scenario e senza saperlo si ritrova nel bel mezzo di uno spettacolo completamente diverso.
(Kundera – Amori ridicoli)

 

orizzonti paralleli foto mie

contemplo

comolago

SIPARIO


“Viviamo in un mondo in cui l’uomo è l’abito che indossa.  

Meno c’è l’uomo, più è necessario l’abito”.

Siamo stanchi di tanti abiti e di pochi uomini. Stanchi di bugie, di mezze verità, di cose non dette, dell’ipocrisia. Di tattiche e strategie.

C’è bisogno di lealtà e di trasparenza, di cose vere, poche e vere. Troppi stagni di acqua ferma e torbida a mescolare smorfie con sorrisi, e falsi pudori, finte partecipazioni, ipocrite condivisioni.

Troppi rumori, troppa musica. Recitiamo ruoli che finiscono per inghiottire ciò che siamo, respiro dopo respiro.

Basta con i vestiti basta. Servono persone. Persone. Persone. Persone che sanno ancora stringere una mano con fermezza e lealtà, persone la  cui parola vale ancora l’onore che riveste.

Viviamo di relazioni, siamo animali gregari ma siamo soli. Troppi che “sotto il vestito niente”, troppe giacche senza sotto un cuore, troppi occhiali scuri sopra occhi che non si fanno vedere.

C’è bisogno di cose vere, di fiducia. Di fiducia. Di essere  uomini e donne senza cerone a soffocare, a opprimere, a imprigionare.

C’è  bisogno di abbracciare alberi, di sentire il prato sotto i piedi nudi, c’è bisogno di carezze, di odore di pelle senza profumi. Di terra. C’è bisogno di terra, di odore di foglie e di persone.  C’è bisogno di sentire mani nelle mani il cuore dentro le mani e contro il cuore.

Di fare l’amore senza istruzioni senza silicone senza manuali, senza aver bevuto, senza averlo programmato. Senza aver deciso le mutande da indossare.

Abbiamo paura di parlarci e di toccarci veramente. Paura di eplorare.  Paura di spogliarsi.

Stanca. Tutto questo vivere di plastica. stanca 

Ci si abiuta a tutto, anche a vivere in multiversi, a vagare dentro gli strati come zombie, inconsapevoli degli orizzonti, dei confini tra più mondi. Ci perdiamo, dentro i nostri labirinti, ci guardiamo allo specchio senza riconoscersi. Togliamo strati di cerone trascinando via sorrisi o smorfie di dolore senza sapere quand’è che son finiti.

Il canto degli uccelli, il rumore dell’acqua sono tutti registrati. Basta chiudere gli occhi.  La luna e le stelle, il sole, sono affreschi sullo sfondo, dirimpetto il sipario.

Venghino signori. Venghino.

INSOLITI INCONTRI

insoliti incontri

(foto: mia) Strada per Castelluccio di Norcia. Una piana, ricoperta di fiori di campo giallo, viola, fuscia, rosa pallido raggiunta dopo un percorso fitto di ginestre fiorite di un giallo carico, spettacolare.
Probabilmente è abituata alle persone, dato che si è avvicinata parecchio. Dalle ciuccine mi sembrava che avesse i piccoli; probabilmente allatta. Un bell’incontro. Mancava il gatto? Nemmeno per sogno! Ho incontrato (pensate che coincidenze!) Petula e Zar Ziguli e, sul loro davanzale c’era anche La Lucertola.

Da “Il Piccolo Principe”:
Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe.
Ma la volpe ritornò alla sua idea: ” La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me . Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica
.

OMAGGIO AI MICI TUTTI – AMLETICI E SIMMETRICI

SINOTTICI SIMPATICI EMPATICI EPICI PISCOTICI COMICI FOBICI
CINICI FANTASTICI BIONICI ROMANTICI EDIPICI DOGMATICI ECCENTRICI METAFISICI CINETICI
E A TUTTI QUELLI PETULANTI
Celeste

 

micini amletici

BAU

 


 

Era già capitato di recente in Sardegna: una cagnetta ferita in un bosco e il suo amico quadrupede che abbaia allo sfinimento fino ad attirare l’attenzione di due cacciatori. E ora anche in Giappone: un cagnetto che assiste il suo amico tra le macerie lasciate dal terremoto e dallo tsunami. Quando sono arrivati i soccorritori hanno cercato di portare via il cane che stava bene e lasciare al suo destino il Fido ferito. Ma quello non ne ha voluto saperne. Non si è mosso di un millimetro. Guaiva come a dire: “O portate via entrambi, oppure preferisco morire qui con lui”. E’ andata nel migliore dei modi. I due cani sono stati soccorsi entrambi e ora sono in un centro veterinario. Forse li chiameranno Eurialo e Niso.

La morale è che ci chiamate bestie ma noi non scappiamo quando c’è un amico in difficoltà. Perché abbiamo sentimenti e talvolta più umanità degli umani.
Un bau a tutti.

Un articolo che emoziona: l’ennesima prova di fedeltà da parte di questi esseri speciali quali sono i cani. Molti di noi sono cresciuti con Rin Tin Tin, Lassie. Recentemente è arrivato Rex, il cane poliziotto.  C’era anche il mitico Skyppy, che era un canguro.

Protagonisti di storie meravigliose: loro erano l’appuntamento quotidiano più speciale dei bambini. Erano nei sogni, nei disegni, più che nei gadgets. Erano nei cuori dei bambini più che sulle copertine dei quaderni, più che sopra gli zainetti di scuola.

In quei telefilm c’era dentro tutto: lezioni di pace, di amore, di rispetto. La cura e l’attenzione per chi è più debole, per chi non può difendersi, per chi non ha modo di farsi valere. Per chi è diverso.

Era chiaro cosa è il bene e cosa il male, cosa è giusto e cosa non lo è. Erano chiari i valori quali solidarietà, amicizia, fedeltà ed era chiaro dove risiede la bellezza e l’armonia. E quanto fosse importante l’onestà e quanto preziose le piccole cose.

Sto andando fuori tema, ma ci torno subito. Chiaro che il tema è l’amicizia, la solidarietà: in una parola sola l’amore che da solo rappresenta tutto.

Si parla tanto, ora, di amicizia: sorrido quando sento i ragazzi in treno dire: Luca mi ha chiesto l’amicizia su facebook. Amicizia ?!! Meglio sarebbe dire “contatto” oppure “autorizzazione”.

Amicizia! Termine abusatissimo anche “fuori” dal mondo virtuale, dai social network, dalle varie chat e dai vari blog. Si fa in fretta a dire “un mio amico, una mia amica”. Capita anche a me ma poi sempre mi correggo, a proteggere quel valore e allora dico: “anzi conoscente… direi un conoscente”.

Faccio fatica a vedere un confine tra ciò che definiamo “amicizia” e ciò che definiamo “amore”. Non puoi amare qualcuno senza essere suo amico, e non puoi essere amico di qualcuno senza amarlo. E l’amicizia è un sentimento alto, un valore che si fonda sulla stima e sulla solidarietà, sul rispetto, sulla fiducia. Come l’amore. Poggia su valori altrettanto alti e comprende anche rinunce e disponibilità. Disponibilità? Cos’è?

Tornando all’articolo, che è il responsabile di queste riflessioni mi vien da dire che chi non ha auto cani forse non sa di cosa sono capaci. Per molti questa loro natura è poco dignitosa. Io invece sostengo che bisogna guardare dentro lo sguardo di un cane per trovare la dignità che abita dentro l’umiltà alta.

Molti ci vedono umiliazione al posto di umiltà. L’umiliazione dello zerbino. Esiste, certo, ma non appartiene ai cani. C’è un pozzo dentro gli occhi di un cane: dentro quel pozzo ci si può calare con la certezza di essere al sicuro anche se è buio e umido. Li dentro abita la capacità di amare senza compromessi e senza riserve. Abita anche quella rassegnazione adulta, matura, di quando è “finita”. Che è accettazione, e mai fine della lotta. Un cane non smette mai di lottare, è capace di camminare per mesi e mesi o per anni se ti deve rovare. E’ capace di resistere (con dignità senza pari) a qualsiasi freddo e caldo e fame e sete e morire senza un lamento.

Abita dentro di essi una specie di … consapevolezza del mondo, una grande saggezza. Secondo me loro possiedono la chiave dei segreti del mondo.  Io non so come fanno, ma so che “loro sanno”. Loro sanno leggere dentro di te, sanno quando stai male quando sei felice. Sanno quanto sei stanco quando sei nervoso quando sei semplicemente annoiato.

E fin qui forse è anche facile. Ma loro sanno quando sei ammalato, lo sanno, esattamente come sanno di essere ammalati quando loro sono ammalati. E non ci lasciano mai soli, non lo fanno mai.

Un cane mangia il suo piccolo quando sta male. Un gesto crudele? No, ovviamente. Un enorme gesto di pietà e di amore e di consapevolezza. Mio padre ha vissuto 4 anni con un cane che ora vive con me da 6: si è ammalato a maggio, mio padre, cancro ai polmoni. Ful sapeva. Io sentivo che lui sapeva, ancora prima che noi tutti sapessimo, prima che mio padre sapesse. Mi trasferii praticamente a casa sua: per qualche mese lasciai quasi completamente la mia casa e vissi con loro due. Le finestre al piano terreno della casa erano costantemente piantonate, dal di fuori. In qualsiasi stanza mio padre si trovasse, Ful era fuori dalla finestra di quella stanza. Per mesi.

Morì in dicembre dello stesso anno e lui ovviamente sapeva. Non lo cercò mai perché semplicemente sapeva. Lo lasciammo ancora diversi mesi nella casa: la nostra presenza era frequentissima, ovviamente, non volevamo semplicemente non volevamo staccarlo di botto dalle sue abitudini, dai suoi luoghi e probabilmente sbagliavamo: lui sapeva.

Un paio di anni dopo la morte di mio padre, lessi che sanno avvertire il tumore al polmone, lo annusano dal fiato, prima ancora che qualsiasi potentissima tac possa fare una qualsiasi diagnosi.

Hanno un’anima speciale e la fine dell’articolo “La morale è che ci chiamate bestie ma noi non scappiamo quando c’è un amico in difficoltà. Perché abbiamo sentimenti e talvolta più umanità degli umani” io non la trovo corretta, toglierei “tavolta”. Inoltre “umanità” non significa niente: è un termine che viene usato per indicare valori che spesso non appartengono affatto agli uomini.

Sarebbe un mondo meraviglioso se fosse governato dai cani. Giusto, corretto, con regole semplici e un ordine preciso. Affidabile e sincero. E a proposito di sincerità (poi giuro la faccio finita, sopportatemi): quante sono le amicizie che girano attorno alla nostra esistenza che non comprendono bugie, oppure segnate da mezze verità? In altre parole è soprattutto l’opportunismo che regola molti dei rapporti che abbiamo, inutile raccontarci balle: abbiamo bisogno di relazioni e per non perderle, mentiamo … Triste? Forse, ma forse solo umano. Appunto, umano quindi non comune ai cani (per esempio).

Con il passare degli anni impariamo a sentire sulla pelle – cioè sotto il pelo che abbiamo perduto – chi ci “adopera”, e distinguerlo da chi è presente nei nostri giorni perché ci vuole bene e ci ha scelti per costruire un rapporto che cresce, con lo scambio, la condivisione, il confronto.

E’ con il tempo e sulla pelle che impariamo ad usare con parsimonia la parola “amico – amica” e a scegliere con chi passare il nostro tempo.

Io con i miei cani non sento mai niente sulle pelle se non la voglia di sentire il loro fiato, anche quando – diciamolo – proprio profumato …. non è.

GROVIGLI DI PENSIERI

reti in rose

(foto: mia)

Allo specchio siamo braccia, corpo, gambe capelli. Occhi, denti, unghie. Scatole, belle o meno belle. Armoniosi nei lineamenti oppure disarmonici, delicati o marcati nei tratti. Figure slanciate, snelle oppure formose, rotonde o secche. Visi regolari o asimmetici, sorrisi simpatici, teneri o disarmanti, o poco attraenti. Siamo noi, ci diciamo allo specchio, in fotografia. Ci riconosciamo. Si?

Ma c’è un posto, che è anche un istante,  in cui si mescolano il giorno e la notte della coscienza, quel punto indistinto del ponte che accoglie e unisce luce e tenebre, bellezza e fango, freddo e caldo, bene e male, dentro e fuori.
Somiglia al sonno quando non è acnora sonno ma non è più veglia. E’ il punto estremo della linea di confine del crepuscolo o dell’alba, un guizzo appena percettibile, evanescente per il Tempo così come lo conosciamo, ma sterminato nel Tempo nello stato incorporeo del mondo.

E’ li che si svolge l’incontro tra consapevolezza e anima. L’anima che sente, che pulsa senza meccanismi, lo scrigno dell’istinto.  Potente e chiaro come la luce del mattino, trasparente come acqua. E’ l’istinto che fa in modo che noi “sappiamo”.
E’ lui che ci avverte, che ci solleva il pelo quando è paura, che arriva avvolto di tenebre nei nostri sogni e si veste di immagini. Scrive, con le immagini. Racconta fiabe, ci avverte, ci ammonisce, ci suggerisce.
Ci mostra ciò che siamo, ci informa di noi, deponendo nei sogni i suoi graffiti i suoi disegni animati. Messaggi potenti, preziosi se li ascoltiamo, se vogliamo riconoscerli e attraverso questi, ri-conoscerci.

In quel territorio, infinitamente sottile per le misure del mondo, ma molto meno sottile per il mondo in cui vive l’anima, si trovano il senso dei fili, le risposte, il suolo dei numeri e dei suoni, e un’altra natura del Tempo. E’ un luogo indeterminato:  da lì i numeri sbucano fuori, evadono e si travestono affinché il loro mistero continui ad essere mistero, da questa parte del confine, qui, dove vivono le “scatole”, i corpi funzionanti grazie ai cuori che battono e al sangue che circola, ai reni che lavano.

Lì ci sono risposte, basta saperle accoglierle, volerle leggere.
Saper dar retta alle voci senza suoni, alle immagini che ci compaiono senza che passino attraverso gli occhi. Dentro, sotto la cenere della consapevolezza, tra la brace dell’anima si sa sempre cosa si deve fare, cosa si vuole e cosa sarebbe giusto fare per noi.

E’ il giorno del mondo, con le sue chimere, le sue illusioni, le sue luci colorate ad allontanare l’istinto: basta un golfino per eludere il brivido sulle braccia, calmare il pelo che si solleva.
Basta un po’ di frastuono, una risata,  per mettere a tacere la vocina che cerca di dare l’allarme, che ci avverte che ciò che cerchiamo è altrove, e che esiste, e che abbiamo unghie e dita per scavare, e denti per mordere e gambe per salire e che abbiamo tutto, ma proprio tutto per riscattarci,  per raggiungere ciò che noi siamo di dentro e finalmente congiungere queste due parti.
E’ dolore ciò che le separa, un dolore che ad un certo punto diventa insopportabile.
Ma quando arriva la consapevolezza, ecco che siamo forza splendente che nessuno può fermare.

Occorre imparare a stare in silenzio e raggiungere “quel” posto. Li ci siamo noi, con tutte ma proprio tutte le risposte. Lì vediamo chiaramente i tratti di coloro che sono i predatori della nostra energia, i ladri della nostra luce. Vediamo lo stato di salute del nostro esistere e di chi ci porta via la libertà di essere ciò che siamo, il diritto di essere ciò che siamo davvero. Ci porta lontani dalla nostra natura, dal nostro naturale battito.

Siamo animali: prima di imparare noi “sappiamo”. Prima di capire noi “sentiamo”. Prima di diventare, noi “siamo”. Abbiamo l’intuito, sappiamo sempre meno usarlo, meno ancora lo ascoltiamo. Lo deridiamo, spesso, lo mettiamo a tacere. Il presentimento, il fiuto, la capacità di annusare, a quattro zampe il mondo. Quella di avvertire il temporale, la tempesta, di  sentire dove c’è acqua e dove fuoco sono diventate storie di realtà selvagge, che non esistono più, perchè ci siamo “evoluti”.
Perché il cervello “sa” e ad esso bisogna affidarsi. Dobbiamo essere razionali, decidere, pianificare. Dobbiamo essere sempre più testa sempre meno pancia,  sempre meno pelle. Vivere di strategie:  esistenze come partite a scacchi, piani di guerra, progetti tracciati e scommesse, sfide.

Ma noi … siamo fatti di fiato, di pensieri, di desideri, di anima. Siamo intrecciati ai fili che uniscono le persone alle cose, il mistero che stabilisce gli incontri, che fa leggere i ricordi, che ci fa sentire l’odore di chi ci è simile, fino a raggiungerlo. Siamo rabdomanti. Intrecciati alla magia dei numeri, legati ai tracciati delle stelle, subiamo la luna, il potere dell’acqua, i minerali, la luce e il buio. Affidarci a ciò che sentiamo molto spesso è la salvezza.

cielofiorentino

PRIMAVERA

verde

coriandoli

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È un miracolo, ogni anno. In pochissimi giorni gli alberi si vestono, fioriscono i fiori, prima le bulbose, le primule e poi gli altri.  I prati si colorano, le serate profumano. I merli, le tortore, i passeri, le cinciallegre, le gazze popolano i giardini, nidificano nellle siepi, sugli alberi, rallegrano le giornate. Primavera, il miracolo della rinascita. Tutto si rinnova e tutto si prepara: i fiori di oggi saranno semi per futuri fiori. Mi stupisce sempre la velocità del cambiamento, l'affermarsi di questa stagione. Odora la terra, odora l'aria, odorano di vita e di promesse.  Buoni giorni a tutti gli amici di questo posto che lo rendono così colorato e così speciale. Grazie! 
 

iris

TODO CAMBIA

  

 mercedes sosa
 

Cambiano le cose superficiali
e cambiano anche quelle profonde
Cambia il modo di pensare
Tutto cambia in questo mondo

Cambia il clima con il passar degli anni
Il pastore cambia il suo gregge
E così come tutto cambia
Non é strano che cambi anch’io

Cambia  il suo luccichio il diamante  più prezioso
passando di mano in mano
Cambia il passerotto il suo nido
Cambia il proprio sentire un amante

Cambia rotta il viandante
anche se ciò gli arreca danno
E così come tutto cambia
Non é strano che cambi anch’io

Cambia, tutto cambia

Cambia il sole durante la sua corsa
Quando la notte persiste
Cambia l’albero e si veste
di verde in primavera

Cambia il pelo la belva
Cambia il colore dei capelli l’anziano
E così come tutto cambia
Non é strano che cambi anch’io

Tuttavia il mio amore non cambia
Per quanto lontano io mi trovi
Nè il ricordo , nè il dolore
Della mia terra e della mia gente

E ciò che é cambiato ieri
Dovrà cambiare domani
Così come cambio io
In questa terra lontana

Cambia, tutto cambia